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INVESTIMENTI INTERNAZIONALI E AIUTI

L’Africa dei Mandarini

di: Giovannangelo Montecchi Palazzi
L’occidente ha un approccio etico (ai limiti del moralismo) e ha costruito un sistema stringente di regole in tema di aiuti allo sviluppo e di investimenti internazionali. Cerca di condizionare i sistemi istituzionali nel senso delle democrazie parlamentari (ai limiti dell’ingerenza) ma, al contempo, è farisaico perché le reazioni alle frequenti violazioni delle regole sono molto diverse e, di fatto, vengono sostenuti Stati tutt'altro che democratici. Insomma, le regole si applicano agli avversari e si interpretano per gli amici. Al contempo, la Cina sta imponendo un altro modello, efficace, disinvolto, pericoloso. “Mi sono reso conto – ci ha scritto Giovannangelo, proponendoci questo suo ultimo articolo - che quel che sta accadendo in Africa è la punta avanzata, il paradigma di una strategia di aggiramento non solo economico dell'Occidente tramite i PVS, strategia ben più sottile ma non dissimile da quella perseguita dall'URSS ai tempi della decolonizzazione. Obiettivo ultimo è imporre un "modello cinese" di rapporti internazionali rigorosamente basato sui principi della sovranità degli Stati e della non ingerenza, cioè il contrario di quanto gli Stati occidentali si sono sforzati di fare dall'ultimo dopoguerra in poi costruendo tutta una rete di istituzioni multilaterali e regole comuni. Insomma una sorta di regresso al sistema westfaliano "cuius regio, eius religio" e dei rapporti di forza, ma perseguito con sottigliezza: la Cina è membro delle NU, del FMI, del WTO, della Banca Mondiale ecc. e, formalmente, non ne contesta le regole, a cominciare dai diritti umani, ma nei fatti, le spiazza”.


Per mezzo secolo, a partire dal secondo dopoguerra, l’ambito dei finanziamenti ai Paesi in Via di Sviluppo - non solo APS (Assistenza Pubblica allo Sviluppo) ma anche crediti delle MDBs (Multilteral Development Banks), crediti all’export IDE (Investimenti Diretti Esteri), alle importazioni e altri minori - è stato dominato dall’Occidente perché l’apporto dell’URSS e dei suoi satelliti, Cuba compresa, paesi peraltro assai attivi in ambito militare, era largamente inferiore e si è esaurito dopo il crollo del muro di Berlino.  Allora la Cina era ancora un Paese economicamente arretrato.

Pur avendo avuto, a suo tempo, anche obiettivi geopolitici (contenimento della penetrazione sovietica nei PVS) e pur con i vincoli e i limiti in parte indicati nell’articolo “Aiutiamoli a casa loro”, i finanziamenti occidentali hanno sicuramente contribuito al progresso economico e sociale dei PVS, con una progressiva accentuazione degli aiuti in favore degli interventi di stampo umanitario e di “good governance” a scapito di quelli infrastrutturali (si fa riferimento alle MDGs, Millennium Development Goals e alla SDGs, Sustainable Development Goals che sono in primo luogo obiettivi umanitari).

Ma da circa 20 anni si assiste, anche in questo ambito specifico, allo sviluppo irruente di un “modello cinese” che rappresenta un’alternativa, una sfida efficace al “modello occidentale” sotto diversi profili: politici, economici ed operativi. Il continente ove tale sfida è particolarmente evidente è l’Africa, non solo perché è il meno sviluppato ma anche per alcuni fattori specifici. 

Molti Paesi africani, così come la Cina, sono governati da partiti unici o comunque adottano politiche economiche dirigistiche, sono quindi “partners” ideali per accordi intergovernativi e/o progetti a forte valenza politica che assecondano le richieste dei politici locali. Niente vincoli macroeconomici del FMI e altre “condizionalità” occidentali.

L’Africa è esportatrice di materie prime di cui la Cina è ormai la prima importatrice al mondo e che, ovunque possibile, cerca di accaparrarsi, controllandone direttamente le fonti,  di preferenza al ricorso ai mercati internazionali.

Nel continente africano la corruzione è endemica. Tutti i maggiori Paesi occidentali si sono dotati di leggi per fronteggiarla, istituendo la competenza extraterritoriale dei propri tribunali. Una persona fisica o giuridica italiana può essere giudicata in Italia per un fatto accaduto in Nigeria (come è accaduto all’ENI) o in India (com’è accaduto a Finmeccanica) e, in alcuni casi, addirittura da tribunali di Paesi terzi se, per il fatto corruttivo, risultasse danneggiata un’impresa dei Paesi in questione. La Cina non ha di questi scrupoli.

Le norme OCSE sull’APS e i crediti all’esportazione impongono vincoli assai rigidi non solo quanto a condizioni (minime di tassi e massime di durata) ma anche di altra natura come norme ambientali, lo “slegamento”  dei crediti di aiuto dalle forniture nazionali o la concessione di crediti ripagabili con (o garantiti da forniture di) materie prime o da concessioni minerarie.  La Cina non si pone tali vincoli e, nella sua ottica di accaparramento, fa largo ricorso a crediti garantiti da risorse naturali. Le larghe disponibilità finanziarie cinesi riportate di seguito non sono neanche soggette ai divieti o ai limiti imposti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) all’indebitamento dei PVS in difficoltà.

Alla spregiudicatezza opportunistica e alla “potenza di fuoco” finanziaria della Cina, supportata da riserve valutarie per oltre 3.000 miliardi di dollari, frutto di una bilancia commerciale perennemente e straordinariamente attiva, si somma il primato assoluto negli scambi commerciali. I due aspetti sono complementari e si alimentano a vicenda.

Reperire dati attendibili sui fenomeni anzi citati per l’insieme dei Paesi africani è arduo a causa della reticenza di Pechino a fornirli (non adesione allo OECD’s Creditor Reporting System) mentre i confronti con i corrispondenti dati occidentali sono complicati dal fatto che le definizioni di alcuni strumenti finanziari sono diverse da quelle dettate dal Comitato di Aiuto allo Sviluppo (DAC) dell’OCSE. Le stime hanno, quindi, larghi margini di incertezza. Comunque il quadro d’insieme e la sua rapidissima evoluzione risultano ugualmente chiari e impressionanti.

A partire dall’inizio del secolo gli scambi commerciali sono aumentati in media del 20% l’anno sicché, partendo da cifre modestissime, nel 2015, la Cina con 188 miliardi di dollari l’anno, surclassava India (59), Francia (57), USA (53) e Germania (46). Verosimilmente, nel 2017, i 188 miliardi sono diventati 220. E non si tratta solo di scambi a senso unico. In alcuni momenti di calo dei prezzi delle materie prime, il saldo commerciale è stato in favore dell’Africa. Probabilmente un caso unico nel commercio internazionale della Cina.

I finanziamenti a condizioni APS sono i più difficili da inquadrare per le ragioni sopra accennate, al punto che la stessa AfDB  (African Development Bank) rinuncia a stimare l’APS cinese. Secondo stime McKinsey la Cina, con 6 miliardi di dollari annui, si piazzerebbe comunque al secondo posto, a pari merito con l’UE, dopo gli USA (10).

Sempre secondo McKinsey, in fatto di finanziamenti (non a condizioni APS) a infrastrutture, nel 2015, la Cina si è posizionata al primo posto con 25 miliardi di dollari, davanti a Sud Africa (15), UK (11), USA (10) e Francia (6).  In questo comparto la Cina da sola ha concesso più crediti delle principali istituzioni multilaterali (Banca Africana di Sviluppo, Fondo Europeo di sviluppo, Banca Europea degli in Investimenti, Gruppo della Banca Mondiale) nel loro insieme.  Ma poiché i prestiti di tali istituzioni sono “slegati”, aggiungendo ad essi fondi statali locali, le imprese cinesi si sono aggiudicate l’esecuzione di circa il 50% delle opere di infrastruttura.

Gli IDE (Investimenti Diretti all’Estero come definiti dall’ OCSE) della Cina mostrano una notevole volatilità.  Comunque, Mc Kinsey stima che, dal 2010 al 2016, siano cresciuti al tasso annuo del 25% e, secondo l’AfDb, nel biennio 2015-2016, sono ammontati a 38,4 miliardi di dollari, pari al 23,9% del totale, precedendo di molte lunghezze Paesi investitori tradizionali come USA (6,5%), Francia (4,8%) e UK (4,8%).

Le cifre relative a finanziamenti testè riportate registrano soprattutto operazioni di rilievo alcune delle quali oggetto di accordi intergovernativi e, comunque, tutte transitate per canali ufficiali.  Non registrano o registrano solo parzialmente l’attività delle circa 10.000 imprese cinesi in Africa, molte delle quali PMI, con un fatturato stimato in 180 miliardi di dollari, anch’esso in rapida espansione.

Il forte contributo cinese allo sviluppo africano è dunque incontestabile e, a fronte di quanto sopra esposto, ben poco vale contrapporre la qualità scadente di molte opere e forniture. Oppure lamentare il limitato coinvolgimento locale, i danni ambientali, le precarie condizioni di lavoro, le basse retribuzioni che consentono di contenere i costi o, ancora, l’opacità delle condizioni dei finanziamenti, specie quelli garantiti da forniture di risorse naturali o da concessioni minerarie.

E, ora, la Cina comincia ad affacciarsi anche in Sudamerica con approcci ai Paesi della sponda opposta del Pacifico, come Cile e Messico, per non parlare dei prestiti concessi (insieme alla Russia) allo sgangherato e antidemocratico regime venezuelano. Prestiti concessi smaccatamente a fini politici ma, per buona misura, garantiti da forniture di petrolio. A quali condizioni non è dato sapere ma, verosimilmente, gravose.

Con buona pace dell’intervento a Davos col quale il Segretario del Partito Comunista e Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, si è paradossalmente impalcato a difensore dell’ordine economico internazionale di stampo liberale, la spregiudicatezza e l’opportunismo della Cina nei rapporti economico-finanziari con i PVS costituisce uno degli aspetti della strategia cinese volta ad imporre un nuovo ordine mondiale imperniato sulla sacralità della non ingerenza nelle questioni interne degli Stati e sulla preminenza dei rapporti diretti tra Stati sovrani rispetto a quelli multilaterali. Un modello contrario allo spirito delle democrazie occidentali e a tutta la serie di norme di comportamento che esse hanno cercato di promuovere tramite l’ONU e le organizzazioni internazionali, a cominciare dal rispetto di diritti umani fino a giungere agli aiuti ai PVS e alla lotta contro la corruzione. Un nuovo ordine, di cui la Cina ambisce la “leadership”, che in nome dell’efficacia economica, giustifica e blandisce ogni regime autoritario e trova ascolto non solo nei PVS ma financo echi nell’attuale Governo dell’Ungheria, Paese membro della UE e, per effetto reazione, presso l’attuale Amministrazione USA.

La posta in gioco è, dunque, alta e la strategia di aggiramento, blando ma efficace, dell’Occidente tramite i PVS ricorda quella perseguita dall’URSS degli anni della decolonizzazione. Finora, l’Occidente, abbagliato dalle enormi prospettive commerciali, ha tenuto un atteggiamento di passiva acquiescenza ma, di  recente, si nota qualche atteggiamento realistico e qualche caso di inflessione (es. negare alla Cina lo status di economia di mercato).

Nell’ambito ristretto dell’assistenza ai PVS, quale strategia contrapporre?

In un’ottica di lungo termine l’Occidente non può e non deve rinnegare i suoi principi.  Quindi, in un approccio che potrebbe definirsi “missionario”, non deve abbandonare l’assistenza umanitaria, gli sforzi per difendere il rispetto dei diritti umani, per promuovere la “good governance”, contenere la corruzione ecc.

Ma, di fronte allo strapotere finanziario cinese, dovrebbe almeno:

- concentrare e indirizzare meglio i propri interventi in luogo di distribuirli “a pioggia” su ben 145 Paesi considerati in via di sviluppo dall’OCSE (su 193 membri delle NU),

- razionalizzare la pletora di organizzazioni di assistenza

- rottamare le oltre 80 pagine di norme OCSE che riguardano i crediti di aiuto e all’esportazione che, tra l’altro, proibiscono l’assunzione di garanzie rappresentate da forniture di materie prime e/o dai crediti da esse derivanti,

- per tutti i tipi di interventi ma, in particolare, per quanto riguarda le infrastrutture di base, primo oggetto dei finanziamenti cinesi, badare ai bisogni essenziali (es. elettrificazione), semplificare le istruttorie e abbreviarne i tempi biblici,

- supponendo il settore privato meno soggetto a fattori politici, fare maggiori sforzi per sostenerlo perché, finora, largamente trascurato in favore di quello pubblico. Ancora una volta, dati non facili da reperire e sceverare:  AfDB, nel 2016, ha approvato prestiti a privati non garantiti per 969 milioni di UA (1 Unit of Account = 1  Diritto Speciale di Prelievo, SDR)  su un totale di 8.035 milioni, il Gruppo delle Banca Mondiale ha erogato al settore 10,3 miliardi di dollari su 43,8, la Asian Development Bank, a fronte di nuovi prestiti di 17.471 miliardi di dollari a enti sovrani (Ministeri del Tesoro/Finanze più Banche Centrali) ne ha approvato solo 2.502 a enti non sovrani che comprendono Ministeri, altri enti pubblici ed enti locali.

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