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ACR INDOOR & COVID-19

Cambiate l’Aria

di: Angelo Spena*
Per la lotta al Covid-19 e non solo, a medio termine serve un approccio interdisciplinare: in Italia avremmo una marcia in più per la presenza di un settore industriale del condizionamento dell’aria che è all’avanguardia nel mondo, ma le nostre eccellenze tecnologiche e ingegneristiche devono scendere in campo.


1. Governare la complessità nell’emergenza

Lavaggio frequente delle mani, pulizia personale scrupolosa, disinfezione degli umori della bocca e del naso, astensione di ogni contatto con le folle … Profilassi del CoViD-19 dell’anno 2020? No, “Spagnola” dell’anno 1918. Chiusura di scuole, cinema e locali pubblici, disinfezione dei treni, limitazione ai parenti stretti dei cortei funebri … Provvedimenti adottati nel 2020? No, nel 1918. Ciò che impressiona nell’approccio alla emergenza odierna non è che sia il medesimo di un secolo fa, il che per taluni aspetti è anche ovvio e sacrosanto. È che sembra impossibile che la tecnologia non abbia messo a disposizione nient’altro di più in un secolo; e che si rivedano in campo medici, virologi, biologi, epidemiologi, ma non tecnologi e ingegneri. Questo approccio, già discutibile quand’anche dovesse risultare conveniente a una fredda analisi costi/benefici in caso di malattie per le quali esiste un vaccino, a me pare inaccettabile quando il vaccino non c’è. È dimostrato scientificamente che l’uso per esempio di tecniche di rinnovo dell’aria negli ambienti chiusi può ridurre i contagi in misura fin pari a una percentuale di vaccinati del 50-60 per cento (1). Di più, è inquietante la sensazione che la parola “tecnologia” evochi ormai solo qualcosa di inafferrabile che si impone quasi per imperscrutabile capriccio dell’economia, della finanza e dei suoi mercati, una sovrastruttura immateriale inoculatrice di bisogni spesso fittizi, aliena ai nostri bisogni primari. E che invece latiti, balbetti, non sia la prima ad accorrere quando gli umani ne avrebbero davvero bisogno.

Nell’attuale emergenza sanitaria ogni possibile paradigma di difesa richiede un difficile bilanciamento tra costi umani e sociali, e costi economici e finanziari. Al riguardo, nella sua essenzialità il messaggio della signora Merkel è stato chiaro. È doloroso, ma in misure diverse potrà ammalarsi la maggior parte di noi. Ciò che sarebbe catastrofico, sarebbe farlo tutti insieme. A differenza del cinico approccio criptomercatista dei Paesi anglosassoni che con selettivo fatalismo malthusian-darwinista abbandonano quei pessimi consumatori che sono i soggetti deboli e anziani al loro destino, l’Italia appare più o meno consapevolmente (2) aver imboccato il percorso più umanitario già sperimentato in Cina. Potrebbe allora profilarsi un fenomeno a onde successive, di ciascuna delle quali andrà necessariamente – pena il tracollo sanitario - tagliato il picco. È tale peak shaving a richiedere provvedimenti drastici di segregazione sociale e di limitazione delle libertà personali, “disabilitanti” ma di immediata applicazione. Ma ogni peack shaving presuppone un recupero ciclico. Passato il picco, l’allentamento - che chiamerei easing - della stretta sociale consentirà una ripresa delle attività produttive, ma non impedirà ulteriori contagi sia pure diluiti (quando non eventuali ritorni dell’onda). Verosimilmente una strategia di stop and go potrebbe risultare l’unica percorribile. Sotto il profilo economico, il peak shaving è senz’altro recessivo. Bisognerà allora puntare sul rilancio nel successivo easing. Come? Con l’aiuto della tecnologia, cioè con interventi “abilitanti”. Con investimenti cioè che siano non solo efficaci, consentano cioè di recuperare quanto più possibile del Pil perduto; ma anche efficienti, limitino cioè il più possibile gli ulteriori inevitabili contagi.

E siamo giunti a un primo punto dirimente. L’approccio metodologico della riduzione statistica dei contatti a rischio - cioè quelli tra le vie aeree e le membrane molli, con le emulsioni liquide infette – come riduttivamente formulato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, rischia di essere fuorviante. A quanto ho potuto riscontrare in documenti scientifici, non c’è accordo infatti tra chi ritiene che il CoVid-19 si trasmetta principalmente attraverso “goccioline” (droplet), e molto meno attraverso aerosol; e chi invece (4) sostiene che entrambe le vie, in dipendenza dai luoghi, dalle circostanze e dal fattore umano, abbiano la stessa pericolosità. Cito testualmente, per i primi, il recente report OMS (3) dalla Cina: “COVID-19 is transmitted via droplets and fomites during close unprotected contact between an infector and infectee. Airborne spread has not been reported for COVID-19 and it is not believed to be a major driver of transmission based on available evidence”. E, per i secondi, ancora da (1): “There is still some debate about how the new coronavirus that causes Covid-19 is spread. This has resulted in an overly narrow approach taken by the federal Centers for Disease Control and Prevention and the WHO. That’s a mistake.”

Con un approccio a mio parere carente di interdisciplinarità in un contesto di ignota complessità, la OMS continua dunque a sottovalutare, se non a ignorare fino a oggi, metà di marzo 2020, in tutti i suoi documenti e in particolare nelle Linee guida ufficiali (cui inevitabilmente si ispirano anche quelle nazionali), il rischio di trasmissione del Covid-19 anche per via di sospensione nell’aria. (Non si comprende tra l’altro come mai la presunta enorme massa di portatori sani possa contagiare senza starnutire o tossire, al di là del contatto fisico stretto). Proprio la OMS con intrinseca incoerenza dimentica che i 187 casi iniziali della SARS nel complesso abitativo di Amoy Gardens nel 2003 a Hong Kong vennero dagli studiosi (5) con buona probabilità attribuiti proprio alla diffusione di bioaerosol. L’approccio della OMS appare monotematico, pressoché esclusivamente legato ai basilari aspetti medico-biologici, ma insufficiente in un contesto industriale e terziario avanzato. La complessità va governata. Non banalizzata, inevitabilmente ingenerando dubbi e contraddizioni (come nel caso per esempio dell’uso o meno di dispositivi di protezione individuale) in una mera replica fuori tempo del copione della “Spagnola”. In questi cento anni - grazie anche ad associazioni prestigiose, prima tra tutte la statunitense ASHRAE – si è consolidata una branca ingegneristica, cosiddetta del “controllo ambientale degli ambienti confinati o indoor”, specializzata nel trattare le diversità delle condizioni ambientali “al chiuso” rispetto a quelle “all’aperto”. Basti pensare ai progressi fatti nella realizzazione di ambienti puliti, fino a quelli più asettici e non contaminati, sulla spinta della sicurezza nucleare o microbiologica tanto per fare due tra i tanti possibili esempi. Oggi la tecnologia consente di vivere sottoterra, sott’acqua, nello spazio, in ambienti confinati anche affollati. Al tempo della “Spagnola” non era esattamente così. E, soprattutto, esiste in Italia un settore industriale del condizionamento dell’aria che è all’avanguardia nel mondo con marchi prestigiosi e tecnologie di assoluta eccellenza.

 

2.Correggere l’approccio metodologico

In Italia e nel mondo le strategie di difesa collettiva si sono finora unicamente basate sulla ipotesi, troppo semplicistica come visto, che le droplet siano l’unica causa di contagio. Ma una declinazione ragionevole del principio di precauzione dovrebbe suggerire di mettere in campo tutti i mezzi possibili per occuparsi anche del contagio da aerosol che, magari anche solo come causa secondaria, non può essere esclusa dagli scenari epidemiologici. La differenza tra droplet e aerosol è sostanziale. Le prime (molto più grandi e pesanti) una volta emesse da uno starnuto o da un colpo di tosse cadono per gravità a terra e/o aderiscono a superfici; sono quindi pericolose durante la loro traiettoria di caduta, se incontrano un tessuto umano o una mucosa. Ma questo percorso dura pochi secondi, dopo i quali la pericolosità deriva dal loro aderire a superfici che possano essere toccate dalle persone. Gli aerosol invece (molto più piccoli e leggeri), mantenendosi in sospensione nell’aria continuano a vagare, potendo incontrare anche dopo molto più tempo le persone circostanti. Il punto è che – pare – il CoViD-19 possa rimanere in vita da un minimo di 15-30 minuti sotto forma di aerosol in aria secca e calda, a un massimo di due o più giorni come goccioline rimaste umide su superfici a basse temperature. Dunque si profilano tre possibilità di contagio:

i) la gocciolina investe immediatamente una persona (è tuttavia difficile che uno starnuto proietti una particella a più di uno-due metri)

ii) la gocciolina cade su una superficie, e lì sopravvive se abbastanza umida e fredda (per inciso, qualche approfondimento meriterebbero forse al riguardo talune aree dei supermercati). Toccarla può reimmetterla verso le mucose e tessuti di una persona attraverso le mani

iii) l’aerosol è diffuso nell’aria, e lì sopravvive da 15 minuti, fino ad alcune ore se abbastanza umido e freddo. Muovendosi liberamente, può essere inalato da una persona anche a distanza.

È chiaro a questo punto che le vie i) e ii) di contagio abbiano comportato le due precauzioni indiscutibilmente adottate nella presente emergenza: rispettivamente, la distanza minima interpersonale, e il lavaggio frequente e prolungato delle mani. Ma per la via iii) cosa si fa? Come in tutti i casi degli aerosol nocivi, ciò che ne caratterizza la pericolosità è la concentrazione. Più si diffonde lontano, più la concentrazione diminuisce, in ragione inversa del quadrato della distanza. Dunque all’aria aperta anche per gli aerosol è sufficiente tenersi a una certa distanza. Ma negli ambienti chiusi?

Negli ambienti chiusi la distanza interpersonale di un metro diviene via via sempre più priva di senso come atto di tutela. Si configura piuttosto un rischio aggiuntivo, perché all’aumentare dell’affollamento la concentrazione dell’aerosol cresce, per effetto di accumulo, proporzionalmente al numero di persone (che starnutiscono o tossiscono). Per cui, mentre da una parte la concentrazione diminuisce con la distanza (che ha comunque un limite nelle dimensioni del locale), aumenta nel tempo finchè il virus rimane in vita. Purtroppo la concentrazione degli aerosol, nocivi e non, sfugge alla nostra percezione a differenza per esempio della percezione di caldo o di freddo. Ce ne accorgiamo per brevi istanti quando entriamo in un ambiente chiuso e sentiamo odore di “aria viziata”. Ma dopo pochi minuti un fenomeno scientificamente definito di “adattamento” fa svanire tale percezione. Sicchè non solo gli avventori/utenti del locale (una filiale di banca, un ufficio postale, un supermercato, una sala di attesa, una hall, un un reparto produttivo, un laboratorio, un ambulatorio, uno studio televisivo, un mezzo di trasporto con finestrini chiusi, una palestra, un ascensore) non si preoccupano più, ma soprattutto chi ci lavora, magari per otto ore, perde ogni consapevolezza di quello che appunto si chiama “inquinamento indoor”. Salvo tornare a casa con un apparentemente inspiegabile mal di testa, semplicemente dovuto a un eccesso di concentrazione di anidride carbonica da respirazione. Cosa si può fare? Semplice, si è sempre saputo, “cambiare l’aria”. Per esempio, aprire frequentemente le finestre (bastano 5-6 minuti ogni ora). Ma se non ci sono finestre? O se non sono apribili? Allora serve un impianto di ventilazione meccanica controllata, detto “di rinnovo dell’aria”.

 

3.L’Italia e l’eccellenza nel controllo ambientale indoor

E siamo al secondo punto di rilievo, alla luce della conclamata necessità di consentire la prosecuzione delle attività produttive e dei servizi essenziali sancita dalla sottoscrizione, il 14 marzo scorso, di un Protocollo condiviso da tutte le parti sociali. Le cui Linee guida per il contrasto e il contenimento della diffusione del CoViD-19 attengono in particolare alla sanificazione e riorganizzazione dei luoghi di lavoro (postazioni, locali, aree comuni ecc). Una volta che i provvedimenti più radicali e basilari (per capirci, quelli “disabilitanti” della “Spagnola”) siano stati adottati, si dovrebbe infatti senza indugio passare a interventi di profilo più specialistico. Si danno tre casi: i) l’impianto di rinnovo non c’è; ii) l’impianto c’è, ed è acceso; iii) l’impianto c’è, ma viene tenuto spento. Qui l’Italia può avere una marcia in più, perché abbiamo la piattaforma dei distretti industriali del condizionamento dell’aria che è tra le migliori, se non la migliore al mondo, e perché abbiamo l’eredità culturale del ministro Sirchia (cui non diremo mai abbastanza grazie perchè fu tra i pochi ad avere il coraggio, in una Europa mercantile timorosa delle multinazionali del tabacco, di vietare il fumo di sigaretta nei locali pubblici fin dal gennaio del 2003) che come effetto collaterale diede impulso in Italia alle competenze nel rinnovo dell’aria. Più precisamente, gli interventi “abilitanti” possono essere divisi in due categorie: quelli “attivi”, realizzati cioè a mezzo di impianti e macchinari HVAC (Heating, Ventilating, Air Conditioning) dedicati; e quelli “passivi”, realizzati semplicemente favorendo fenomeni spontanei di movimento dell’aria. È intuitivo che questi ultimi possono essere realizzati in tempi più brevi e con minori costi. Ma non per questo con minori competenze specialistiche, perché come raccomandano le Linee Guida dell’ASHRAE recentemente aggiornate (6), i percorsi dell’aria – ancorchè “spontanei” - devono essere comunque previsti, garantiti, agevolati e governati.

 

4.Gli interventi attivi

È bene precisare che gli impianti di rinnovo nulla hanno a che vedere con gli impianti che riscaldano o raffreddano gli ambienti (i cosiddetti “condizionatori split”). Perché questi ultimi ricircolano sempre la stessa aria, riscaldandola d’inverno, e raffreddandola d’estate. Quindi non basta vedere quei condizionatori in ambiente, perché sia garantito il rinnovo dell’aria. Gli impianti di rinnovo sono altri, anzi normalmente sono pressochè invisibili perché dovendo mettersi in contatto con l’esterno non solo per prelevare l’aria di rinnovo, ma anche per espellere quella viziata, sono incorporati nella struttura dell’edificio. Tanto per capirci: se non si trova una presa esterna, e non si trova una griglia di espulsione, quell’impianto non è di rinnovo. Purtroppo molti di questi impianti esistono, ma non vengono usati perché il loro funzionamento è costoso. Una delle raccomandazioni appena ribadite (5) dall’ASHRAE testualmente recita: “Avoiding unintended adverse consequences in infectious desease transmission resulting from lower ventilation levels motivated solely by reduced energy consumption. È un problema serio che personalmente denuncio da anni. Mi si perdonerà la testuale autocitazione (7), risale al 2017 ma non ne trovo una migliore: “Non mi stancherò di mettere in guardia dal comprimere ulteriormente (se non surrettiziamente di fatto azzerare - all’insaputa degli utenti) i rinnovi d’aria per via meccanica nei luoghi pubblici e nel terziario, e con mezzi naturali negli ambienti residenziali e privati. Non è efficienza energetica, è soltanto risparmio miope, una pericolosa deriva comportamentale dei conduttori di impianti HVAC, un azzardo che indebolisce le difese sociali ed espone cittadini e consumatori di servizi pubblici e privati a rischi epidemiologici che, nel contesto contemporaneo, sono del tutto inaccettabili. Piaccia o non piaccia, i consumi per la salubrità dell’aria non sono comprimibili. È una questione vitale, e di civiltà. Che deve uscire dal cono d’ombra in cui viene relegata proprio quando, al tendere a zero dei fabbisogni di calore e di freddo degli edifici per dispersioni, non può che comportare fabbisogni di potenze termiche e frigorifere per i trattamenti dell’aria (che sono indipendenti dall’isolamento) percentualmente sempre più dominanti”.

La riattivazione non dovrà tuttavia avvenire alle condizioni previste dalla normativa energetica ordinaria. Si dovrà infatti aver cura di escludere le sezioni di umidificazione, in modo da ottenere condizioni indoor di aria secca - magari accettando qualche disagio per le persone - che possano essere letali per il virus in sospensione negli aerosol, se come pare ha bisogno di umidità per sopravvivere. Si dovrà altresì evitare qualsiasi contaminazione attraverso quei recuperatori di energia improvvidamente resi tout-court obbligatori dalla UE nel 2017. E si incontrerà spesso una difficoltà aggiuntiva. Se un impianto meccanico, che è composto di organi metallici in movimento, non funziona per lungo tempo si blocca per il calcare o per la ruggine. Dunque in molti casi non basterà premere un pulsante per farlo ripartire. Occorreranno interventi di manutenzione straordinaria, se non l’integrale rifacimento delle apparecchiature. Gli impianti esistenti andranno inoltre preventivamente sanificati e bonificati internamente tutte le volte che saranno stati già utilizzati, anche solo in parte, in modalità “ricircolo”, così accumulando gli inquinanti interni nei condotti e nei filtri. Dotare di filtri assoluti e riavviare gli impianti di rinnovo dell'aria è dunque l’intervento tecnico “attivo” più immediato. Ma a tre precondizioni: 1) nessun ricircolo, 2) nessun recupero di calore, 3) nessuna umidificazione. Le relative sezioni di impianto, ove esistenti, dovranno essere disattivate. E si dovrà garantire il pieno controllo di pressione della zona trattata, e una ritaratura speciale caso per caso delle condizioni interne prescelte.

 

5.Gli interventi passivi

Molti interventi di ventilazione naturale, pure di una qualche efficacia ai fini della diluizione delle concentrazioni del virus, sarebbero a costo quasi zero. Trattasi della attivazione di circolazioni spontanee di aria esterna dove possibile, aprendo finestre, porte e ogni altro tipo di aperture in modo incrociato, cioè tra prospetti per quanto possibile opposti, e in particolare tra quote diverse (“effetto camino”) tutte le volte che si tratti di locali multipiano. È quella che viene chiamata cross ventilation, “lavaggio” nel gergo italiano tecnico. Qualche esempio: supermercati su più livelli, vani scale degli edifici, uffici e locali pubblici con affacci su più prospetti, capannoni industriali, autorimesse. Potrà altresì risultare opportuno – dove fattibile - impostare gli impianti ascensore in modalità di porte aperte allorchè fermi, arrestando le cabine ai piani più bassi in modo da sfruttare le correnti ascensionali d’aria dei vani scale per “effetto camino”. Anche in questo caso però trattasi sempre di interventi tutti da calibrare sulle specificità del sito e del suo profilo di frequentazione, cioè interventi di tipo “sartoriale” da definire caso per caso. Per fare un esempio, grande cautela va posta nell’evitare che si instaurino circolazioni indesiderate: gli ambienti da tutelare vanno infatti sempre tenuti in sovrapressione rispetto a quelli circostanti per evitare infiltrazioni d’aria nocive incontrollate.

 

6.La ricerca che non può attendere

Molti degli interventi sopra delineati – e altri ancora - potrebbero essere di supporto e mitigazione, anche immediata, ai provvedimenti governativi “disabilitanti”. E diverranno a loro volta prospetticamente “abilitanti” a medio termine, allorchè profilandosi un allentamento della emergenza, si dovrà cercare di riportare a regime il motore della nostra economia. A patto ovviamente che, richiedendo tempo per essere progettati e realizzati, non si perda più un solo minuto. A partire da subito. E affidiamo all’industria del controllo ambientale, al lavoro interdisciplinare di ingegneri e virologi, il compito più arduo – ma ineludibile nelle more della messa a punto di un vaccino – che attende la ricerca applicata: la calibrazione cruciale e definitiva del complesso trade-off tra sopravvivenza del nuovo virus, e vulnerabilità al medesimo delle vie respiratorie dell’uomo, al variare di umidità, temperatura, raggi UV negli ambienti indoor. È una questione di sistema. In sintonia con il suggerimento (1) del NYT “limiting the impact of this epidemic will require an all-in approach”, è irrinunciabile un approccio interdisciplinare e strategico. Affrontare la complessità, per governarla. C’è molto lavoro da fare presto e insieme.

 

*Professore Ordinario, Direttore dei Laboratori di Fisica Tecnica Ambientale, Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa, Università Tor Vergata di Roma

 

RIFERIMENTI

1 - J. G. Allen, Your building can make you sick or keep you well, NYT, March 4, 2020

2 - https://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/

3 – WHO, Report of the WHO-China Joint Mission on Coronavirus Disease 2019, 16-24 febbraio 2020

4 – J. Cai et Al, Indirect virus transmission in cluster of Covid-19 cases, Wenzhou, China, 2020, to be published in June 2020

5 – Ignatius T.S. Yu et Al, Evidence of airborne transmission of the SARS, The New England Journal of Medicine, April 22, 2004

6 – American Society of Heating Refrigerating Air Conditioning Engineers, ASHRAE Position Document on Airborne Infectious Diseases, reaffirmed by Tecnology Council, February 5, 2020

7 – A. Spena, Efficienza energetica. Governare la complessità delle opzioni più avanzate, editoriale, La Termotecnica, novembre 2017.

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