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EFFICIENZA ENERGETICA DEGLI EDIFICI

La Coperta Corta degli Incentivi e gli Effetti Lunghi dell’Efficienza

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di: Nino Di Franco
Cosa si dovrebbe fare per catturare il potenziale di risparmio in edilizia? Dal 2021 si potranno costruire solo edifici NZEB, quindi a risparmio quasi totale. Resta il parco esistente. Cosa fare, oltre tutto quello che già è previsto (detrazioni 65%, 90% per le facciate, conto termico, ecc.)?


In Italia si legifera sull’efficienza energetica in edilizia dal 30 aprile 1976, data di entrata in vigore della legge n. 373 «Norme per il contenimento del consumo energetico per usi termici negli edifici». È quindi da 44 anni che il legislatore nazionale ha in agenda il tema, e che progettisti, uffici comunali, venditori, acquirenti e inquilini sanno che in casa bisogna rispettare una qualche norma che impone/invita a contenere i consumi.

Per le nuove generazioni di geometri, periti edili, architetti e ingegneri non si tratta dunque di una novità intervenuta nel corso dell’apprendistato o della professione (cui uniformarsi con qualche difficoltà dovendo modificare le proprie procedure progettuali), ma si tratta di fatto di una condizione al contorno: per un qualunque edificio, nuovo o da ristrutturare, ma anche esistente durante la compravendita, occorre rispettare norme sul risparmio di energia. Nell’arco dei decenni, il tema del risparmio energetico è poi rimbalzato alla Commissione Europea, la quale ha irreggimentato la materia con un gagliardo piano d’azione, che ha visto nel tempo l’emanazione di tre direttive sull’efficienza energetica (la 2006/32 ESD-Energy Service Directive, la 2012/27 EED-Energy Efficiency Directive e la recente 2018/2002 che modifica la 2012/27) ed altrettante sull’efficienza negli edifici (le successive EPBD-Energy Performance Building Directives, rispettivamente la 2002/91, la 2010/31 e la 2018/844). Sei direttive significano sei successivi decreti di recepimento con relative disposizioni attuative, e insieme hanno disegnato un quadro abbastanza complesso e pervasivo della materia.

I macrosettori di uso finale dell’energia sono tradizionalmente l’industria, i trasporti e il comparto civile. L’industria non ha troppa necessità di pungoli per diminuire i propri consumi, essendo l’energia una voce che incide sui costi di produzione e quindi sulla competitività: comparti energivori devono necessariamente già star tenendo sotto controllo i consumi, altrimenti correrebbero il rischio di andare fuori mercato. Norme impositive sui comparti industriali non energivori interferirebbero di converso nella politica produttiva della singola azienda, il cui amministratore è il solo delegato a bilanciare le proprie risorse economiche tra le varie voci di spesa, e se quella relativa all’energia non risulta critica, non c’è motivo di farla diminuire con imposizioni dall’esterno. Per tali motivi i consumi del comparto industriale risultano scarsamente comprimibili, e di questo è testimonianza il grafico 1 (dati Eurostat), che mostra l’andamento del consumo assoluto del comparto industriale italiano nel corso degli ultimi due decenni, con l’evidente diminuzione a partire dagli inizi degli anni 2000, indubbiamente intrecciata con la crisi finanziaria del 2008. Analoga tendenza alla diminuzione è mostrata dal comparto dei trasporti; il terziario mostra consumi crescenti nel tempo, mentre il residenziale mostra negli ultimi dieci anni una certa stabilità.

La previsione dell’UE è dunque quella di aggredire i settori apparentemente più comprimibili, cioè quello dei trasporti e del residenziale. Il recente editoriale dell’Astrolabio era incentrato proprio sull’incipiente recepimento della EPBD III, e sulla conseguente strategia nazionale di riqualificazione energetica degli edifici esistenti con orizzonte 2050, sollecitando le istituzioni a legiferare in linea con i tempi previsti. Il nostro contributo al dibattito inizia scindendo pragmaticamente il tema in due: cosa fare sul parco edilizio nuovo, e cosa sul parco edilizio esistente.

Sul nuovo, dubitiamo che si possa ulteriormente migliorare la situazione di fatto. La legge 90/2013 stabilisce che a partire dal 1° gennaio 2021, ossia tra una decina di mesi, potranno essere costruiti ex novo solo edifici NZEB a consumi quasi zero, e questo dovrebbe confortare il legislatore europeo e nazionale: meno di così, il nuovo parco edilizio non potrà consumare. Certo, esistono anche edifici ‘ZEB’, a consumi netti pari a zero, e “energy-plus buildings”, ossia edifici che, come fossero piccole centrali di produzione grazie all’uso di fonti rinnovabili, generano nel tempo più energia di quanta ne utilizzano. Qualora il disposto della l. 90/2013 non risultasse risolutivo, non dubitiamo che in un prossimo recast dell’ultima EPBD saranno imposti edifici ZEB o edifici energy-plus.

Il tema riguardante il parco esistente è molto più stimolante, poiché si tratta di porre mano su quanto costruito prima della legge 373/76, ossia su più di 9 milioni di abitazioni, circa il 75% di quelle esistenti in Italia, supponendo che quelle costruite dopo il 1976 abbiano rispettato la legge.

Cosa si può fare per diminuire i consumi energetici in una casa esistente? Poche cose: cappotto esterno o interno, nuove vetrature, impianto termico ad alta efficienza, fonti rinnovabili, ricordando inoltre che a seguito della direttiva Ecodesign (2005/32/CE), da settembre 2015 non possono circolare sul mercato europeo caldaie non a condensazione.

La questione a questo punto si scinde nuovamente in due, a seconda che gli interventi ‘dovrebbero essere’ realizzati, o che ‘dovranno essere’ realizzati.

Sul ‘dovrebbero’ la normativa nazionale sta già operando dal 2007, anno in cui fu lanciato lo strumento delle Detrazioni Fiscali (c.d. Ecobonus) come incentivazione per gli interventi in precedenza menzionati. Lo strumento ha fino a oggi finanziato 3,6 milioni di interventi e liberato investimenti per circa 38,8 miliardi di euro (dati ENEA). A partire dal 2013 è operativo anche il Conto Termico, che finanzia analoghe tipologie di intervento in particolare per edifici della Pubblica Amministrazione. Esso ha riconosciuto ad oggi circa 500 milioni di euro di incentivazioni a fronte di circa 140.000 richieste (dati GSE). I richiedenti accedono a tali sistemi incentivanti non perché obbligati da una norma, ma per ottenere vantaggi economici in corrispondenza di ristrutturazioni o modifiche impiantistiche. Da ciò si deduce che il potenziale che DDFF e CT possono liberare nei prossimi anni è calcolabile quasi deterministicamente, proiettando al 2030 in un’ottica BAU-Business as Usual, il tendenziale di interventi realizzati fino ad oggi. Per es., nella seguente figura sono noti i risparmi di gas naturale conseguiti con le DDFF nel periodo 2014-2018.

Estrapolando la relativa linea di tendenza si ottiene un potenziale di risparmio, al 2030, di 0,115 Mtep, mentre il cumulo dei risparmi nel periodo 2014-2030 risulta di 1,8 Mtep. Tutto ciò nell’ipotesi che ogni anno le successive leggi di stabilità confermino il meccanismo delle DDFF, che si consegua la stessa percentuale annua di risparmi, che non insorgano problemi di saturazione, e che siano introiettati nella previsione gli effetti benefici della cessione del credito d’imposta per gli incapienti e il possibile intervento delle Esco a favorire e gestire interventi complessi facilitando l’accesso ai finanziamenti.

Il sistema incentivante basato sulle DDFF introdotto in Italia è da considerarsi molto premiante per gli utenti finali (e oneroso per le casse dello Stato, ossia per i cittadini contribuenti) visto che le detrazioni possono variare dal 50 al 65% delle spese, e fino all’85% se in concomitanza con interventi per ridurre il rischio sismico; è quindi impossibile che tali percentuali possano essere nel futuro incrementate, se non in modo marginale.

Visto che invece, al 2030, dovranno essere raggiunti obiettivi superiori, non sarà più sufficiente contare sulla libera iniziativa degli utenti al fine di realizzare interventi che portino fieno in cascina, e che al massimo potranno promettere un trend come nella precedente figura. Lo Stato dovrà intervenire direttamente adottando un approccio impositivo oppure retributivo. Il primo rende coercitiva la realizzazione di interventi di risparmio, seppur prevedendo in parallelo meccanismi di finanziamento agevolato che rendano l’operazione sostenibile per i proprietari, coinvolgendo istituti bancari o Esco. ‘Finanziamento agevolato’ significa che la somma per gli investimenti potrebbe essere resa disponibile da un terzo a tassi di interesse vantaggiosi, ma l’onere per gli investimenti di risanamento dovrà essere in ogni caso restituito per intero. Un simile scenario potrebbe essere legalmente impugnabile, anche perché gli utenti finali attualmente pagano per la fornitura energetica, e finché il prezzo dell’energia sarà ritenuto sostenibile sarà difficile giustificare un’imposizione che troverebbe scarsi riscontri sul versante dei costi-benefici (quando l’energia costa poco i tempi di ritorno degli investimenti si allungano, e questa dinamica inficia anche quei meccanismi di assistenza finanziaria che fanno leva sull’entità dei risparmi per la compensazione di quanto anticipato dal soggetto finanziatore – per es. i contratti a garanzia di prestazione – rendendo l’iniziativa non conveniente né per l’utente finale né per il finanziatore).

Lo Stato potrebbe assumere un approccio retributivo, sostenendo direttamente le spese di investimento che, escludendo ovviamente la modalità a fondo perduto, verrebbero recuperate in un secondo momento. In pratica un utente potrebbe farsi realizzare l’intervento a completo carico dello Stato, il quale potrebbe rientrare della cifra anticipata in sede di compravendita dell’immobile risanato. Sembra però questo un meccanismo di difficile gestione: se la compravendita avvenisse a breve scadenza, il meccanismo non sarebbe diverso dall’accensione di un normale mutuo; se la compravendita avvenisse molto in là nel tempo, lo Stato potrebbe non rientrare del proprio contributo finanziario, a meno di non accrescere il carico burocratico della corrispondente contrattualistica che dovrebbe prevedere garanzie, ipoteche, ecc.

Ultima possibilità, a conclusione di questa disamina, sarebbe il rendere obbligatori interventi agevolati dalle DDFF o dal CT, a carico di determinate categorie di utenza. In pratica, a seguito di una capillare campagna di diagnosi energetiche nelle abitazioni, verrebbero individuate quelle situazioni per le quali il risparmio energetico e l’incentivo renderebbero sicuramente attraente l’iniziativa, che a quel punto verrebbe imposta al proprietario. Sul potenziale di interventi implementabili permane tuttavia un’alea dovuta al fatto che il sistema è operativo dal 2007, ed ha già penetrato in profondità il mercato del settore residenziale: il 15% delle famiglie, una ogni sei, ha realizzato almeno un intervento che ha beneficiato delle DDFF (dato CRESME). Si presuppongono essere queste le sedi in cui fossero presenti gli interventi più efficaci di conseguenza, in base alla teoria degli interessi decrescenti, nel rimanente parco di immobili gli interventi residui sarebbero più polverizzati, meno efficaci, più ‘costosi’ quindi meno attraenti.

La coperta sembra irrimediabilmente corta. Prima di invocare un improbabile Procuste, cerchiamo di capire perché è così difficile intervenire nel settore residenziale, e perché nonostante un dibattito che dura da 44 anni, sei direttive e sei decreti di recepimento i consumi in Italia non sembrano risentirne (al contrario di quanto succede per es. in Germania, v. fig. seguente, dati Eurostat).

Gli interventi di risparmio energetico nell’abitazione hanno una bassa intensità perché la fonte utilizzata, principalmente gas naturale (in Italia, circa l’80% dell’energia è consumata nelle abitazioni sotto forma termica, come riscaldamento degli ambienti e acqua calda sanitaria, dato Eurostat), produce un vettore termico – acqua calda – a bassa intensità, ossia a bassa temperatura. Risparmi di acqua a bassa temperatura hanno intrinsecamente basse entità, ed i corrispondenti flussi di cassa diventano poco interessanti. Risparmi consistenti si possono ottenere solo intervenendo pesantemente sull’involucro opaco e trasparente, passando da un classico impianto a termosifoni a un impianto a bassa temperatura ad ampie superfici radianti (a pavimento o a soffitto) e ricorrendo a fonti rinnovabili. In tal caso intervengono le detrazioni fiscali a convincere il proprietario ad intervenire, ma spesso questo non avviene, anche in uno scenario di sicura redditività. Perché?

In natura, l’entità di un flusso dipende dall’entità di un battente: idraulico, nel caso di una corrente liquida; di potenziale, nel caso di una corrente elettrica; di temperatura, nel caso di un flusso termico, ecc. In economia energetica, il battente consiste nella spesa per fornitura energetica: se questa è alta, è alto il potenziale di risparmio, se questa è bassa, è basso il potenziale di risparmio. L’Istat dice che nel 2017 la famiglia media italiana spendeva 116 euro al mese per la fornitura di energia, quali che fossero i vettori utilizzati; si tratta di circa 1400 euro l’anno. Questo è il potenziale a disposizione. La conversione di una normale abitazione facente parte di quel 75% del parco immobiliare prima della legge 373/76 (e il 75% dei lettori dell’Astrolabio vive in una simile abitazione) a edificio ZEB a zero consumi netti farebbe risparmiare alla famiglia media quei 1400 euro l’anno, ma a fronte di un investimento molto significativo che comporta la posa di un cappotto esterno, di nuovi e performanti infissi, di un impianto termico a bassa temperatura a pompa di calore, di un impianto fotovoltaico e pannelli solari termici, sistemi di accumulo, con lunghi tempi di ritorno, siano o meno presenti incentivi.

Più si tende da edifici ZEB a edifici NZEB (consumi ‘quasi’ zero), da ristrutturazioni importanti di primo livello a ristrutturazioni di secondo livello o a singoli interventi di riqualificazione energetica, i risparmi vanno decrescendo, decrescono i flussi di cassa, decresce l’interesse del proprietario. Se costui, cioè l’utente finale, non è portatore di convinte motivazioni, la ruota della macchina economica non si innesca, e tanto meno può tramutarsi in una spirale virtuosa che stimoli un corto circuito del tipo win-win-win in cui Stato, fornitori di tecnologie, consulenti, finanziatori, utenti si ritrovino tutti col proprio bilancio in attivo. Forse la maniera migliore di intervenire nel settore potrebbe essere quella di attendere gli effetti di quanto ad oggi normato che, ripetiamo, non è poco: tra direttive, decreti di recepimento, Ecodesign, strumenti di incentivazione, contratti a garanzia di prestazione. L’isteresi potrebbe essere lunga, ma gli effetti sono sicuri.

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