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RISCHIO SISMICO, PREVENZIONE ZERO - REWIND

Disastri naturali e disastri della politica

di: Mario Signorino
Relazione alla conferenza degli Amici della Terra “Disastri naturali: le minacce per l’Italia e le politiche di tutela”, Roma 20 dicembre 2005


 

Oggi parliamo di temi vecchi e scontati, ma di grandissimo rilievo, che esplodono a intermittenza nella vita nazionale ma sono trascurati dai più. Non li trovate nei programmi dei partiti, la classe politica non discute di questo dossier, non ne parlano i Verdi o le maggiori associazioni ambientaliste, con l’eccezione degli Amici della Terra. Soprattutto, si tratta di temi che non si sono ancora tradotti in una politica.

Ecco allora, quel che oggi ci proponiamo è di segnalare una rimozione collettiva e di porre alcuni obiettivi politici.

Perché questa rimozione?
Intanto, per la disomogeneità rispetto ai tempi della politica. Terremoti, vulcanismi, alluvioni avverranno sicuramente, ma non si sa quando: tra un anno o un secolo. In queste condizioni d’incertezza perché impegnare il bilancio statale?

In secondo luogo, per i lunghi tempi di ritorno dei disastri: tra un evento e l’altro, politici ed opinione pubblica rimuovono il ricordo delle cose spiacevoli. Accade così che i disastri lascino dietro di sé traumi ma non producano responsabilità. È bene dirlo: con le spese di emergenza il politico ci guadagna, mentre la prevenzione non rende. Da parte sua, la grande maggioranza dei cittadini rifiuta regole ed oneri della prevenzione.

Natura buona, uomo cattivo
I disastri naturali mettono in discussione atteggiamenti culturali ormai stabili, in particolare quel rapporto ideologico con la natura che è proprio dell’ortodossia ecologista. Nel breviario dell’ecologicamente corretto, tutto il male viene dall’uomo, dall’economia capitalistica, e tutto il bene da una natura immaginata in termini scioccamente idilliaci. Così il lupo non uccide l’uomo, lo squalo non lo attacca, l’orso è un giocherellone, il delfino guarisce i bambini…Natura buona, uomo cattivo.

Certo, questa visione panglossiana della natura è difficilmente sostenibile di fronte a un sisma di magnitudo 7, 8 o 9. E comunque, se un disastro non è attribuibile all’attività umana, la maggior parte degli ambientalisti non se ne occupa. Punto e basta. Noi invece pensiamo che si parli troppo poco di questi problemi e che di essi debba tener conto l’agenda della “Rosa nel pugno”. 

Un riformismo moderno non può non occuparsene, per molte ragioni:

  • - Tener conto dei rischi naturali cambia in modo sostanziale la visione della questione ambientale e delle sue priorità.

  • - Al fondo dei problemi, c’è il destino del nostro paese nella sua identità fisica e culturale. Che razza di classe politica è quella che non controlla il territorio del proprio paese e non lo difende? Che razza di politica fa?

  • - L’impegno dei governi è sempre stato inadeguato, all’insegna della memoria corta. L’Italia cioè non si difende bene, anche se per esperienza si sa che le calamità naturali producono molte vittime, perdite irreparabili di tesori culturali, danni economici stratosferici.

  • - L’Italia infatti è il paese dei vulcani, dei terremoti, delle alluvioni e delle frane. Rischi non sempre di livello elevato, ma intrecciati in una miscela che ha pochi riscontri al mondo e che produce effetti catastrofici. È questa la vera questione che viene rimossa.

  • - In riferimento a questi problemi, si pone infine una questione meridionale di tipo particolare - in termini cioè di maggior vulnerabilità rispetto ai rischi naturali - che la politica non può continuare ad ignorare. Ciò non esclude ovviamente che si pongano anche, sia pure in termini più limitati, problemi di messa in sicurezza di parti importanti del territorio settentrionale.

Ricostruzione: il caso di Gibellina
In questo convegno non ci occupiamo di problemi tecnici di protezione civile, ma di questioni politiche generali, riguardanti la prevenzione e la ricostruzione.

Cominciamo da quest’ultima. Essa comporta scelte politiche particolarmente difficili, che possono mutare l’identità di parti importanti della nazione. Scelte che andrebbero perciò formalizzate prima, comunicate e discusse con l’equilibrio, la lucidità e il tempo che mancano all’indomani di un disastro.

C’è un caso che illustra bene questa esigenza: il terremoto del Belice del 1968 e, più in particolare, il caso di Gibellina e delle scelte che ivi furono compiute dopo il disastro. Questo caso dovrebbe avere maggior rilievo nella storia del costume, della cultura e della politica del nostro paese.

Non mi riferisco all’impreparazione dello stato, che non è certo esclusiva di quell’occasione; né alla lentezza della ricostruzione (nel 2003 si denunciava che era stata completata solo all’80%; nel 2004 i sindaci chiedevano ancora il saldo dei finanziamenti); né agli sprechi rimasti impuniti malgrado la solita commissione parlamentare d’inchiesta.

Mi riferisco alla nuova Gibellina, icona di un tipo di ricostruzione che aggiunge danni ai danni del sisma. Alla Gibellina concepita dalla cultura architettonica e urbanistica “democratica” del dopo ’68; ricostruita senza alcun richiamo al borgo antico e lontano da esso, secondo i dettami di architetti e scultori d’avanguardia; performance artistica ed insieme contenitore di opere d’arte a cielo aperto e di abitanti spaesati.

Gibellina nuova doveva essere il simbolo della riscossa del Sud. Di più: lo strumento per ridisegnare i rapporti di potere tra cultura e capitale in Italia. Attraverso di essa dovevano infatti affermarsi “…i temi grandiosi di un’arte civile, né mercantile né subalterna, che in qualche modo potesse giovare a tutta la nazione…” (traggo questa e le altre citazioni dall’utilissimo libretto di Mario La Ferla, “Te la do io Brasilia”, Stampa Alternativa, 2004).

Fu così che il disgraziato paese, vittima di un alienante giacobinismo ideologico, a partire dagli anni ’70 divenne un mito, un fenomeno da baraccone mondiale, oggetto di una straordinaria “infatuazione snobistica e modaiola”, “una sbornia collettiva, un fenomeno di massa molto intellettuale”, meta di visitatori da tutto il mondo.

Ai locali i luminari dell’architettura e dell’urbanistica promettevano mari e monti: la Svezia, la Svezia! Brasilia, Brasilia! Abboccarono in tanti.

Qualcuno parlò invece di “laboratorio del superfluo”. Qualcun altro, con l’occhio all’elenco sterminato degli artisti pagati per far apparire la Svezia in terra di Sicilia, parlò di “rapina di stato”.

Alcune cose da fare adesso
In occasione dei recenti uragani negli Stati Uniti, si è discusso su quale possa essere il sistema più efficace di gestione dei rischi naturali: uno stato pesante o uno stato leggero? Per l’Italia, me la caverei con una battuta: ci vorrebbe uno stato vero, che sappia affrontare i problemi, fare scelte di priorità, governare. Perché la prevenzione non è una questione tecnica di protezione civile, ma un problema di sistema, quindi innanzitutto politico e culturale.

Pongo domande molto grezze: c’è qualcuno in Italia - un uomo di governo, intendo - che pensi alla prevenzione, che stabilisca quali opere a rischio mettere in sicurezza o che decida di decongestionare un’area particolarmente esposta? Chi è costui e che cosa ha fatto e detto in questi ultimi cinque anni?

Avviare una politica di prevenzione vuol dire cambiare le priorità della politica ambientale, mettendo al primo posto la difesa dai disastri naturali, che rappresenta una grande questione nazionale.

Vuol dire mettere in sicurezza le grandi reti infrastrutturali, le aree più esposte, i centri storici, il patrimonio culturale, stabilendo priorità, tempi e modalità.

Vuol dire formulare gli indirizzi progettuali per la ricostruzione di aree ed opere a rischio.

Vuol dire trovare soluzioni politiche particolari per il Mezzogiorno, a cominciare dai casi della Campania, della Sicilia e della Calabria.

Occorre infine avviare una politica di eliminazione degli sprechi e di razionalizzazione della spesa pubblica, che comprenda anche una legge organica per la copertura finanziaria dei danni causati da calamità naturali.

C’è una data vicina che voglio usare strumentalmente come termine di verifica della volontà politica di affrontare questi problemi: il centenario del terremoto di Messina e della Calabria del 28 dicembre 1908. È un degno obiettivo politico impegnarsi a incardinare, per quella data e con le misure sopra indicate, una politica di prevenzione e mitigazione del danno.

Si tratta di una data e di un evento da tempo dimenticati dagli stessi abitanti di quei luoghi.
Quasi un secolo fa, il terremoto colpì città e paesi dimentichi delle misure antisismiche codificate dai Borboni e una nazione del tutto impreparata a prestare aiuto. Provocò perciò il massimo di danni, mentre l’opera di aiuto si svolse con tempi e modalità che oggi farebbero inorridire.

Tuttavia, in questo quadro tragico, si verificò una combinazione miracolosa di eventi che garantì il massimo di protezione civile concepibile a quei tempi: l’arrivo a Messina della flotta russa del Baltico con 3 mila cadetti efficienti e attrezzati, subito seguita dalla flotta inglese che la tallonava.

Gli italiani arrivarono dopo i russi e dopo gli inglesi e non fecero bella figura; il personale era poco attrezzato e finì per assorbire una parte importante delle risorse, anche alimentari, destinate ai superstiti.

Credo che lo stato italiano abbia contratto un debito morale con le vittime di quei terribili giorni e che in occasione del centenario abbia l’obbligo di un’espiazione operosa, per garantire che simili eventi non abbiano più il tragico impatto di allora.

Ma non è dei ritardi e delle inefficienze che lo stato si dovrebbe scusare: in quell’immane tragedia, che fece dalle 80 mila alle 200 mila vittime, anche la protezione civile di oggi fallirebbe miseramente. Sono le forme barbare e crudeli in cui si realizzò l’intervento che stupiscono ancor oggi, forme che probabilmente furono possibili solo perché a carico di popolazioni meridionali.

Le ipotesi di desertificazione della sventurata Messina, mediante il bombardamento delle rovine con i cannoni della flotta, un sudario di calce, la dinamite, l’incendio. Nella realtà, la legge marziale e il blocco militare della città; tentativi violenti di deportare i superstiti, anche con la sospensione dei viveri (peraltro messi a disposizione con grande ritardo); la “campagna di morte” e le esecuzioni sommarie degli sciacalli, nei fatti indistinguibili dai poveri superstiti.

In verità, il vero sacco di Messina fu fatto dai soccorritori con comodo nei 15 anni in cui fu realizzato lo sgombero delle macerie. E fu fatto anche dai poteri forti in piena legalità:

  • - non si è mai saputo quanti depositi bancari, conti correnti, titoli di proprietà delle vittime siano stati incamerati dalle grandi banche nazionali, che poi disertarono Messina;
  • - lo stesso vale per i depositi postali e per le assicurazioni;
  • - da parte sua, lo stato incamerò tutti i beni e le proprietà su cui riuscì a mettere le mani, impegnando aspri contenziosi con i superstiti.

Non si conosce con esattezza il numero degli orfani, che furono comunque migliaia; né è molto chiaro quale sia stato il loro destino. È certo che, tra i profughi, molte fanciulle finirono vittime di sfruttatori e furono avviate alla prostituzione; a molte altre toccò di fare le serve nelle case dei benefattori. Sui corpi e le anime degli orfani si accese una vera guerra economica, politica e religiosa, soprattutto fra le iniziative promosse dallo stato e quelle della chiesa; guerra che parzialmente si compose, facendo leva sulla straordinaria attività di don Orione.

Ma se ci si scannava sugli orfani, ci si dimenticò completamente degli anziani rimasti soli e abbandonati. Nessuno prestò loro aiuto e assistenza, e la loro tragedia si consumò senza essere nemmeno notata.

Tutti i problemi riscontrati per Messina si verificarono a Reggio e nel resto della Calabria in forme ancora più gravi.

Sull’azione dello stato nel suo complesso i messinesi coniarono un’espressione che ha avuto fortuna, dal nome del generale Mazza, massimo responsabile degli aiuti e dello stato d’assedio: “non capire una mazza” (sul terremoto di Messina cfr. Giorgio Boatti, La terra trema. Messina 28 dicembre 1908, Mondadori, Milano 2004).

Ieri e oggi
Ci furono già allora osservatori che misero in luce come la tragedia fosse soprattutto effetto delle pessime condizioni edilizie prevalenti a Messina e nella Calabria. Eppure c’era stato il precedente rovinoso, risalente a poco più di un secolo prima, del terremoto del 1783. In quell’occasione era morto quasi un terzo della popolazione messinese ed anche la Calabria era stata duramente colpita. Malgrado ciò, le città erano state ricostruite come prima, in barba ai criteri antisismici.

Temiamo che sia più o meno la situazione di oggi. Con il passare degli anni, la memoria della tragedia è stata cancellata e Messina e Reggio hanno oggi due volti: quello della prima metà del Novecento con case basse e strade larghe e quello degli anni successivi con alti edifici e un diffuso disprezzo delle misure di prevenzione.

Solo che oggi non si può riproporre la domanda che nel 1908 poneva ai suoi critici il presidente del consiglio Giolitti: “Non comprendo come si possa dire che il governo doveva fare di più, che si è lasciato cogliere alla sprovvista…Come si poteva prevedere un disastro senza precedenti?”

Bisogna guardare a questi problemi con un atteggiamento diverso dal passato.
Lo spirito pubblico è cambiato rispetto al terremoto di Messina del 1908, ma anche rispetto a quello del Belice del 1968 o dell’Irpinia del 1980. Non si creda che oggi si possano subire costi umani ed economici elevatissimi, in passato accettati con rassegnazione, senza mettere con ciò a rischio l’unità nazionale.

Se si verificasse, Dio non voglia, un’altra catastrofe come quella che colpì Messina e la Calabria, con quei costi umani ed economici, sarebbero le istituzioni nel loro insieme e l’intera classe politica senza distinzioni ad essere colpite dalla condanna popolare.

Si pensi all’impatto sulla società nazionale di centinaia di migliaia di profughi sparsi nelle diverse regioni, quando bastano poche centinaia di persone in Val di Susa o a Scanzano a mettere in crisi un governo…

Si pensi a quello che si può considerare il “Big one”, o lo spauracchio dell’Italia, cui ha accennato Serva poco fa: un’eruzione pliniana, oppure una sequenza di terremoti disastrosi come si è verificato più volte in passato; o anche solo un terremoto di magnitudo 7 in una grande città.

Alcuni secoli fa, il grande terremoto di Lisbona del giorno d’Ognissanti del 1755 impressionò tutto il mondo, seminando la paura nel cuore dell’Europa illuminista. La catastrofe fu oggetto di aspre dispute filosofiche e impegnò l’ingegno di Voltaire, Rousseau, Kant.

Oggi che il testimone è passato dai filosofi ai tecnici e agli scienziati, disponiamo di conoscenze e strumenti per ridurre i rischi entro limiti accettabili. La messa in sicurezza del paese non è un’utopia, ma un obiettivo politico che si può e si deve perseguire. Liberare l’Italia dal rischio delle catastrofi è possibile con il buongoverno e con una politica all’altezza del rango economico e sociale del paese. Di certo, su questi problemi, dovremmo essere leader nel mondo alla stregua di Stati Uniti e Giappone, e dedicare molte più risorse alla ricerca e alla prevenzione.

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