Tags: Normativa

I DOSSIER DELL’ASTROLABIO

A proposito del numero dei parlamentari e dell’abolizione delle province

di: Francesco Mauro
Le proposte di diminuzione del numero dei parlamentari e delle altre cariche elettive, nonché di abolizione delle province e diminuzione di altre strutture di governo locale interessano l’opinione pubblica anche indipendentemente dall’entità dei risparmi di spesa conseguibili. Probabilmente l’obiettivo di molti cittadini è la riduzione delle dimensioni pletoriche e foriere di inefficienza della classe politica. Per contro, nel dibattito che si è sviluppato, molti politici hanno sostenuto la necessità di accettare come giustificati i “costi della politica” o anche i “costi della democrazia”. In questo quadro, l’informazione fornita dai mezzi di comunicazione o dagli stessi politici sembra scarsa e di bassa qualità. Solo qualche giornale, tra cui il “Corriere della Sera” del 20 agosto 2011, ha fornito informazioni solide e verificabili, concernenti il numero comparato dei parlamentari in vari paesi, riprese dall’ ”Economist” dell’aprile 2011. Partiamo da qui per ricostruire le dimensioni più ampie dell’”eccesso di Stato” e di burocrazia.


 

Un quadro comparato del numero dei parlamentari. Su 23 paesi presi in considerazione, il numero più alto di parlamentari si riscontra nella Repubblica Popolare Cinese (2.987, riguardanti la sola Assemblea del Popolo, che è un organo unico) e nel Regno Unito (1.477), seguito subito dopo dall’Italia (945, riguardanti la somma del Senato e della Camera). Per la verità, la quasi totalità dei paesi considerati è stato analizzato in base alla somma delle due camere (la Cina costituisce un’eccezione). Il campione è abbastanza rappresentativo: 3 paesi del continente americano, 6 europei, 4 africani, e 10 asiatici; per altro verso: 8 sono paesi OECD, 4 sono BRIC, ed 11 in via di sviluppo; per un altro verso ancora: vi sono i quattro maggiori (per popolazione e reddito) paesi della UE (Germania, Francia, Regno Unito, e Italia), alcune repubbliche federali (USA, Messico, Brasile, Nigeria, India), e stati a regimi diversi (dalle repubbliche parlamentari alla repubblica popolare a partito unico).

L’anomalia italiana sembra confermata: tolta la Cina ed il Regno Unito, solo due paesi esibiscono un numero complessivo di parlamentari superiore a 800 (Italia con 945, più 6 senatori a vita, e Francia con 920), tre paesi ne hanno tra 700 e 800 (India, Egitto, Giappone), un gran numero si assesta tra 290 (Iran) e 700. Spiccano per “morigeratezza”, a fronte delle loro dimensioni e ruolo geopolitico, gli Stati Uniti (535 in totale).

Chi scrive si è impegnato a fare qualche calcolo più approfondito, ottenendo dei risultati che indicano come la posizione dell’Italia sia ancor più anomala di quanto non sia già apparente. Per prima cosa, il dato di 1.477 parlamentari per il Regno Unito riguarda – caso unico - sia la Camera dei Comuni (646) che la Camera dei Lord (538 nominati a vita e 92 ereditari): solamente che questi ultimi hanno solo funzioni consultive e costituiscono una sede di dibattito senza poteri legislativi: e così il Regno Unito, con i soli Comuni, rientra nella norma, con un numero simile alla Camera italiana.

La situazione peggiora se si rapporta il numero dei parlamentari alla popolazione: l’Italia, per la Camera, ha un deputato ogni circa 95.000 abitanti, mentre la Cina ne ha 1 ogni 415,000 (per l’assemblea unica), il Regno Unito un valore simile all’Italia, e Francia e Germania un po’ di più (tra 100.000 e 110.000); gli altri paesi maggiori hanno in genere valori ben più alti (USA 1 parlamentare ogni 650,000); per trovare valori bassi, ossia rappresentazione di gruppi più ristretti di popolazione, bisogna andare nei paesi piccoli o con bassa popolazione (ad esempio, Israele e Nuova Zelanda, fra 30.000 e 60.000, che però hanno una camera unica). Per il Senato, l’Italia ha un senatore ogni 190.000 abitanti circa, la Francia 1 ogni 200.000, la Germania 1 ogni 900.000, gli USA 2 per stato (quindi 100 in totale); in genere, laddove una camera alta esiste, con l’eccezione di Italia e Spagna, i valori di popolazione rappresentata per il senato sono alti (ad esempio, Messico, Spagna, India, Giappone).

Ma non basta. In pratica, nessuno dei paesi europei comparabili e dei paesi più importanti ha un bicameralismo perfetto: ad esempio, in USA, Messico, Germania, India, il senato è federale, cioè rappresenta gli stati (in Germania e India è inoltre eletto in qualche maniera delle assemblee degli stati e non con voto popolare); in Francia, il senato ha funzioni limitate ed è eletto indirettamente da un collegio elettorale ristretto di funzionari e notabili; il bicameralismo perfetto o quasi c’è solo in Italia, in Spagna (dove però i senatori sono in parte designati dalle comunità autonome) o in Giappone (dove i senatori sono molto meno).

Insomma, l’Italia appare molto anomala, ed è l’unica, fra questo gruppo di paesi, ad essere una repubblica parlamentare, che è una forma istituzionale invece tipica in genere di paesi ben più piccoli, che spesso hanno peraltro una sola camera.

Una riduzione considerevole del numero dei parlamentari ed una distinzione delle funzioni tra le due camere (introduzione del senato delle regioni) sembrerebbero quindi opportune e giustificate. L’obiezione che, nel caso di un’evoluzione delle leggi elettorali per un sistema maggioritario uninominale (la cosiddetta “rivoluzione americana”) come in USA e nel Regno Unito), sarebbe opportuno avere un numero alto di parlamentari (soprattutto alla Camera), per facilitare i rapporti dell’eletto con l’elettorato, non regge se si osserva che negli USA i deputati (rappresentanti) sono solo 435 (per oltre 300 milioni di abitanti) ed i senatori addirittura soltanto 100.

Tabella 1: Parliaments and Members of Parliament: a comparison

clicca sulla tabella per vederla ingrandita

La questione delle regioni. L’Italia ha 20 regioni, di cui 5 autonome (Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste, Trentino-Alto Adige/Sudtirol, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna) ed una di queste (Trentino-Alto Adige) suddivisa in un 2 province autonome (Trento, Bolzano/Bozen). Diverse regioni sono piccole: Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Umbria, Marche, Molise, Basilicata, a cui vanno aggiunte le due province autonome (hanno tutte meno di 10.000 kmq di superficie).

Si dice comunemente che le regioni rappresentino le identità collegate agli stati pre-unitari, ma così non è. Il testo presentato nel 1947 all’Assemblea costituente, proveniente dal lavoro in commissione, comprendeva le regioni attuali ma con Abruzzo e Molise e con Friuli e Venezia Giulia separate, e con in più il Salento, e con la Basilicata denominata Lucania; dal dibattito era inoltre emersa la proposta di una regione Lunezia (approssimativamente le province di La Spezia, Massa-Carrara, Lucca, Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Mantova, vagamente reminiscente del ducato di Parma). Dal “coordinamento” del testo prima della votazione finale emerse poi la lista attuale, con Friuli e Venezia Giulia (quel che ne restava dopo la guerra) accorpate, Abruzzo e Molise accorpate (il Molise poi separato dal 1963), Salento e Lunezia cancellate, Lucania denominata Basilicata.

Anche la discendenza territoriale-culturale dagli stati pre-unitari è relativa. La Valle d’Aosta non era separata dal Piemonte durante il Regno d’Italia; ed inoltre lo stato pre-unitario del regno di Sardegna-Piemonte comprendeva anche la Liguria (e ovviamente Sardegna e Piemonte, oltre a Nizza e Savoia cedute alla Francia).

La Lombardia e il Veneto (Venezia Euganea) corrispondevano abbastanza al territorio austriaco (Regno del Lombardo-Veneto), ma la posizione di Mantova era diversa; il Trentino-Alto Adige (allora chiamato Venezia Tridentina) venne annesso dopo la I Guerra Mondiale, e la situazione alla frontiera orientale era del tutto diversa (con presenza del cosiddetto Friuli Veneto). L’Emilia-Romagna è poi una regione del tutto artificiale, dato che Bologna e la Romagna appartenevano allo Stato della Chiesa, mentre i ducati di Modena e di Parma erano indipendenti (quest’ultimo comprendente parti di Liguria e Toscana). I principati di Lucca e Piombino vennero annessi al granducato di Toscana solo nel 1847. Le “regioni” (legazioni) dello Stato della Chiesa erano: Romagne (plurale, compresa Bologna), Marche, Umbria (compresa Rieti), Marittima e Campagna (con capitale Velletri e con gli exclave di Benevento e Pontecorvo), Roma (compreso Orvieto).

Con l’Unità d’Italia (decreto Minghetti, 1860), fu creata l’Emilia e Romagna, Gubbio passò dalle Marche all’Umbria; dopo la presa di Roma (1870), Rieti passò al Lazio. Il Regno delle Due Sicilie non aveva regioni o equivalenti, ma solo province: di cui 4 corrispondenti alla futura Campania, 3 all’Abruzzo (gli Abruzzi), 1 al Molise, 1 alla Basilicata, 3 alla Puglia (le Puglie), 3 alla Calabria, e 7 al di là del Faro, ossia in Sicilia; le provincie comprendevano 76 distretti e 651 circondari.

E’ di un qualche interesse rivisitare la suddivisione amministrativa napoleonica per le parti d’Italia annesse all’Impero Francese(decreti nel 1801, 1805, 1808, 1809, terminata nel 1814), disegnata sul modello dell’articolazione rivoluzionaria francese in dipartimenti (comprese, in certi casi, le tipiche denominazioni basate sui fiumi ed i corpi d’acqua). Sorprendentemente, i due dipartimenti della parte meridionale dello Stato della Chiesa rassomigliano alle regioni odierne: Tevere (corrispondente al Lazio, con capitale Roma) e Trasimeno (Umbria compresa Rieti); il dipartimento del Taro corrisponde poi al ducato di Parma; ma la Toscana presenta dipartimenti che corrispondono a grosse provincie: Arno (il nord), Mediterraneo (la costa ), Ombrone (il sud); la Liguria ha anche tre dipartimenti, ridotti poi a due (Genova e Appennini), ed il Piemonte addirittura sei (Po, Stura, Marengo, Sesia, Tanaro, Dora), ma ovviamente non raggruppati in una regione.

Comunque, tornando alle regioni dello stato unitario, con il Regno d’Italia, l’articolazione amministrativa è basata sulle province (1861), ove è presente il prefetto; per un periodo le province vengono chiamate “compartimenti”, poi il termine passa alle regioni (ancora oggi si chiamano compartimenti le aree regionali delle ferrovie o delle strade). Le province (vedi sotto) vengono riordinate nel 1866, 1870, 1920, 1924, a seguito delle annessioni dei territori irredenti, il loro numero integrato ulteriormente nel 1927, 1934 (Littoria, poi Latina), 1935, e finalmente nel 1941 con l’annessione della Dalmazia (Spalato e Cattaro) e di Lubiana. In tutto questo periodo, le regioni o compartimenti esistono, ma sono solo delle unità statistiche e descrizioni geografiche. Nel 1943, alla caduta del fascismo, i “compartimenti” sono: Piemonte (con 7 province compresa Aosta), Liguria (4 province), Lombardia (9 province), Venezia Tridentina (Trento e Bolzano), Venezia Euganea (8 province compresa Udine), Venezia Giulia (Gorizia, Trieste, Istria, Carnaro, Zara), Emilia (8 province comprese quelle della Romagna), Toscana (9 province), Marche (4 province), Umbria (2 province), Lazio (5 province), Abruzzi e Molise (5 province), Campania (4 province, manca Caserta), Puglia (5 province), Lucania (2 province), Calabrie (3 province), Sicilia (9 province), Sardegna (3 province); vi sono poi la Slovenia italiana (una provincia, cioè Lubiana) e la Province Libiche (4 province).

Da questa lista, quindi, alla cui origine sono considerazioni pratiche e non propriamente storico-culturali o economico-politiche, nasce l’individuazione costituzionale delle regioni, peraltro differenziate tra autonome e non, e quelle autonome con livelli di autonomia diversi; il quadro precedente è modificato essenzialmente solo dalle sequele della II Guerra Mondiale: la separazione (ed il bilinguismo) delle Valle d’Aosta (in risposta ai tentativi francesi di annessione) e la costituzione del Friuli-Venezia Giulia (a seguito della penetrazione jugoslava).

L’individuazione delle regioni verrà messa in discussione più volte, soprattutto dopo l’istituzione delle regioni a statuto ordinario nel 1970, con un molto ritardato adempimento costituzionale. Vanno ricordati, a tal proposito soprattutto lo studio della Fondazione Agnelli del 1991, che proponeva 12 “meso-regioni” sulla base di affinità culturali, evoluzione storica e legami economici (compresa l’autosufficienza finanziaria):

  • Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria (tranne la provincia de La Spezia),
  • Lombardia,
  • Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia,
  • Emilia e Romagna, più La Spezia
  • Toscana, più Perugia
  • Marche, Abruzzo, Molise
  • Lazio, più Terni
  • Campania, più Potenza
  • Puglia, più Matera
  • Calabria
  • Sicilia
  • Sardegna.

In varianti successive, la proposta poteva arrivare ad 8 “macro-regioni” più la provincia autonoma di Bolzano.

Queste proposte vennero viste come alternativa alla proposta del Prof. Gianfranco Miglio (1990, allora della Lega Nord) che ipotizzava tre super-regioni: Padania (Nord), Etruria (Italia centrale), Mediterranea (Sud), più le 5 regioni autonome (nelle diverse varianti, risultava talvolta dubbia la posizione di Toscana, Umbria e Marche). Di tutte queste proposte non se ne è fatto nulla, ma appare chiaro, anche alla luce del recente dibattito sul federalismo, che, almeno per il momento, il livello sub-nazionale di interesse sia rappresentato dalle regioni.

Leggi tutto il Dossier qui.

Stampa Email

Commenta e Condividi

 Immaginando

L'Astrolabio

progetto editoriale di
Amici della Terra

l'Astrolabio © 2015
ISSN 2421-2474

Periodico di informazione sull’energia, l’ambiente e le risorse
Testata registrata presso il Tribunale di Roma
Aut. Trib. di Roma del 22/04/1996 n. 189

Direttore Responsabile:
Aurelio Candido

Redazione e Amministrazione:
Via Ippolito Nievo 62 -
00153 Roma - Tel. 06.6868289
06.6875308

Amici della Terra

Seguici