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I Bassi Livelli di Radioattività: Pericolosi o Benèfici?

di: Giovanni Vittorio Pallottino
“E’ la dose che fa il veleno”. Più precisamente: “Tutte le cose sono veleno e nulla è senza veleno, solo la dose permette a qualcosa di non essere veleno”. Così affermò cinque secoli fa il grande medico e alchimista svizzero Philippus Theophrastus Bombast von Hohenheim (1493 – 1541), più noto come Paracelso, che oggi è considerato il padre della tossicologia.



Sconcertante a prima vista, questa affermazione è in realtà in buon accordo con l’esperienza comune, oltre che con le conoscenze scientifiche accumulate nei secoli successivi. E infatti le minuscole quantità di arsenico e di altri veleni che assumiamo normalmente attraverso il cibo non costituiscono alcun danno, mentre è ben noto che bere grandi quantità di bevande alcoliche è assai pericoloso sebbene un bicchiere di vino al giorno possa arrecare qualche giovamento. Ricordiamo anche che fino alla metà del secolo scorso la stricnina veniva prescritta abitualmente come stimolante, ed era anche usata come doping nello sport. E altri esempi ancora si potrebbero aggiungere.

Ma la tesi di Paracelso riguarda solo le sostanze chimiche (veleni, farmaci e alimenti), oppure anche altri agenti, come le onde elettromagnetiche o la radioattività?  La risposta è affermativa per entrambi. Perché sappiamo che sono pericolosi soltanto i campi elettromagnetici più intensi, quelli ad esempio che operano all’interno di un forno a microonde, perché tali da cuocere le sostanze organiche; ma non i deboli campi a cui è normalmente affidato il trasporto delle informazioni che fanno funzionare radio, televisori e altri apparecchi. E anche le piccole dosi di radiazioni nucleari, come quelle a cui noi siamo esposti normalmente, non risultano pericolose per la nostra salute e più in generale per la vita. Non mancano però quelli che sostengono il contrario, affermando che anche le dosi minime sono pericolose, i quali, per coerenza, dovrebbero scegliere di vivere in ambienti accuratamente schermati dalle radiazioni grazie a pareti di piombo di grande spessore. E non mancano neppure, come diremo più avanti, quelli che invece ritengono che piccole dosi di radioattività giochino addirittura un ruolo positivo, favorendo una maggior resistenza agli effetti di dosi più intense.

L’ipotesi che le piccole dosi di radioattività non siano pericolose trova fondamento nel fatto che l’ambiente in cui viviamo è naturalmente radioattivo. E conseguentemente l’evoluzione ha creato una serie di difese naturali molto efficienti nei confronti dei danni biologici provocati dalle radiazioni.  In effetti ogni singola particella costituente delle radiazioni nucleari possiede energia largamente sufficiente a ionizzare un atomo della materia, cioè a strappargli un elettrone, e per questo si parla di radiazioni ionizzanti. Non importa se si tratti di materia inerte o vivente, la ionizzazione talvolta provoca la rottura dei legami chimici che tengono assieme le molecole. Ma siccome la materia vivente è costituita prevalentemente da acqua (H2O), l’effetto delle radiazioni provoca tipicamente la rottura di questa molecola, liberando il gruppo OH. Questo è estremamente reattivo dal punto di vista chimico, cioè reagisce vivacemente con le molecole con cui viene a contatto. E allora queste molecole vengono trasformate in altre, col risultato di provocare danni  alle cellule.

In realtà questi fenomeni avvengono normalmente assai di frequente anche in assenza di radiazioni, causati da agenti chimici o da semplici errori che,  anche se con bassa probabilità, avvengono durante la replicazione delle cellule. Ad essi pongono in parte rimedio i meccanismi naturali di riparazione che agiscono a diversi livelli, da quello molecolare fino a quello delle popolazioni cellulari, e che sono molto efficaci. Quando però questo  non avviene, la cellula può morire, come accade ogni giorno a milioni di cellule del nostro corpo, oppure, se si  modifica la parte del DNA che regola la riproduzione delle cellule queste cominciano a svilupparsi in modo anomalo portando alla nascita di tumori. Questo sviluppo è favorito dalle radiazioni di più alto potere ionizzante localmente, le quali possono causare  danni multipli al DNA, che sono più difficilmente corretti.  Questi processi diventano più probabili con  l’aumento dell’età ed il conseguente indebolimento  del sistema immunitario.

A volte può accadere che  la mutazione avvenga nelle  cellule della linea germinale (i cosiddetti gameti), e se questa mutazione  non modifica la capacità di riprodursi dell’individuo, il cambiamento diviene ereditario. Raramente queste mutazioni hanno effetti positivi e  quasi sempre portano alle cosiddette malattie genetiche che finiscono nel tempo con l’esaurirsi per la minore competitività dei portatori.  Nei rari casi in cui la mutazione ha effetti positivi e rappresenta un vantaggio per la specie essa si  propaga all’intera popolazione. Questo è il meccanismo attraverso cui nel coso del tempo  è avvenuta l’evoluzione delle specie. E qui ricordiamo anche che la vita sulla Terra ha avuto origine oltre 3 miliardi di anni fa, quando la radioattività naturale era più elevata dell’attuale.  Ed è assai probabile che le radiazioni  abbiano  contribuito in modo fondamentale  allo sviluppo della vita e alla sua diversificazione nella straordinaria varietà di specie vegetali, animali e di microorganismi che popolano la Terra.

Alla presenza di radiazioni nell’ambiente naturale contribuiscono sia i raggi cosmici provenienti dallo spazio sia gli atomi radioattivi – principalmente uranio, torio e potassio -presenti nella crosta terrestre, residui dei materiali originari da cui si è formato il sistema solare. Questi atomi si trovano praticamente in tutto quello che ci circonda, nel terreno e in tutte le specie vegetali e animali, e quindi anche nel nostro stesso corpo, dove avvengono circa ottomila disintegrazioni al secondo accompagnate dall’emissione di radiazioni. Alla radioattività naturale contribuisce anche il radon, un gas più pesante dell’aria, che proviene dai decadimenti radioattivi dell’uranio e del torio presenti nelle rocce terrestri, e quindi anche in alcuni materiali da costruzione, ed è particolarmente insidioso quando si concentra all’interno degli edifici (nei piani bassi e nelle cantine perché si tratta di gas più pesante dell’aria).

La distribuzione dei minerali radioattivi nella crosta terrestre è tutt’altro che uniforme: a Viterbo o a Napoli, per esempio, la radioattività naturale è cinque volte maggiore che ad Aosta. E vi sono zone particolari, in Iran, in India e in Cina, dove la radioattività è molto più alta che altrove. Si è trovato addirittura che nei giacimenti di uranio che si trovano nei pressi del vicini al fiume Oklo in Gabon, Africa, due  miliardi di anni fa la concentrazione di minerali radioattivi era così alta da dar luogo alle stesse reazioni nucleari di fissione a catena che si svolgono nelle centrali nucleari. Questi “reattori nucleari naturali” hanno funzionato per diverse centinaia di migliaia di anni, sino ad esaurire il “combustibile”(e i prodotti radioattivi di queste reazioni sono rimasti confinati nel sito dove si trovano tuttora).

Gli studi sulle salute delle popolazioni che vivono nelle regioni maggiormente radioattive, soggette a dosi anche dieci volte maggiori della media mondiale, non  mostrano  differenze apprezzabile nell’insorgenza di malattie rispetto alle popolazioni che vivono nelle regioni meno radioattive.

Ricordiamo ora che per dose di radiazioni s’intende il rapporto fra l’energia delle radiazioni assorbite da un corpo e la sua massa, grandezza che si misura in unità di gray, con simbolo Gy. La dose che si considera più spesso è la cosiddetta dose efficace, nella quale si considera anche la qualità delle radiazioni e i loro effetti sui tessuti dell’organismo irradiato: l’unità di misura si chiama sievert, con simbolo Sv. Per fissare le idee, la dose media annua di origine naturale in Italia, poco diversa da quella mondiale, è di circa 3,4 mSv (millesimi di sievert), come valutata dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ISPRA, quella nella regione indiana del Kerala, attorno a 15 mSv. Maggiori dettagli sulla definizione di dose e sulla radioattività naturale si trovano in [1].

 

La pericolosità delle piccole dosi di radiazione
Sulla pericolosità delle piccole dosi di radiazioni è in corso da tempo un dibattito fra gli scienziati. Il parere prevalente, soprattutto nell’ambito degli organismi nazionali e internazionali che si occupano della sicurezza delle popolazioni, è che la pericolosità sia direttamente proporzionale alla dose e quindi diminuisca al diminuire delle dosi senza però mai annullarsi anche per dosi minime. Altri studiosi ritengono invece che la legge di proporzionalità valga per le dosi più elevate, ma non per quelle piccole, e vi sia anzi  una soglia al di sotto della quale la radiazione non è pericolosa.

La teoria della proporzionalità senza soglia venne adottata dalla Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica (ICRP) nel 1959, e all’epoca fu considerata come una scelta di natura amministrativa e cautelativa, mirata a facilitare la valutazione di grandezze medie di pericolosità per le popolazioni esposte a rilasci di radioattività, e soprattutto la gestione pratica della radioprotezione da parte degli enti a ciò preposti. Ma fu anche una scelta di natura politica, giustamente mirata a porre le condizioni per una moratoria degli esperimenti nucleari militari, che in quegli anni – siamo al tempo della “guerra fredda” - svolgevano le superpotenze provocando ricadute radioattive su vaste aree.

Questa tesi trovò sostegno negli studi, svolti sull’arco di oltre 50 anni, sugli 86mila sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, basati sul confronto con una popolazione analoga non esposta a radiazioni. I risultati di questi studi indicano appunto una proporzionalità diretta fra la probabilità di morte per cancro (in eccesso rispetto alla popolazione di riferimento) e dose ricevuta, che è stata determinata in circa il 5% per sievert.  Questo vuol dire che, mediamente, si ha un decesso da radiazioni ogni venti persone che hanno ricevuto la dose di 1 Sv, uno ogni duecento che hanno  ricevuto 100 mSv e così via per dosi minori. Portando così a concludere che vi sarà un caso mortale ogni duemila persone che siano state sottoposte a dosi di 10 mSv, che è quanto si riceve in occasione di una tomografia computerizzata (CT) ed è meno di quanto ricevono in un anno gli abitanti di alcune zone del pianeta.

Ma è proprio quest’ultima conclusione, basata sulla estrapolazione a basse dosi della legge di proporzionalità, che molti studiosi da anni mettono in dubbio.  Perché è una tesi che non trova riscontro nei dati sperimentali sui sopravvissuti alle bombe. Infatti i casi mortali fra le persone che hanno ricevuto dosi maggiori di 2 sievert sono il doppio di quelli registrati tra i non esposti, consentendo quindi una buona valutazione dell’effetto; i casi mortali per quelli esposti a dosi inferiori a 100 mSv non sono invece rilevabili  rispetto ai non esposti perché  il loro numero è praticamente lo stesso nei due gruppi entro le fluttuazioni statistiche. A ciò si aggiunga il fatto che i dati sui sopravvissuti riguardano persone che hanno ricevuto dosi relativamente elevate in tempi brevissimi e non persone che hanno ricevuto dosi basse per tempi lunghi.

Ciononostante, la normativa di radioprotezione per le popolazioni, in Italia come negli altri paesi, è basata su di una  teoria che ignora la presenza di una soglia di pericolosità. Ciò facilita certamente la valutazione del danno subito da una popolazione esposta alle radiazioni, perché per stimare il numero atteso dei decessi per cancro basta sommare le dosi in unità di sievert e dividere per venti. Ma conduce a risultati non realistici, come nel caso dell’incidente di Chernobyl le cui conseguenze erano state inizialmente valutate in centinaia di migliaia di morti, mentre i dati raccolti successivamente suggeriscono che il tributo di vite umane sicuramente dovuto alla radioattività sia stato assai inferiore (attorno al centinaio), il che nulla toglie alla gravità dell’incidente. Si può dire inoltre che le rilevazioni mostrano grandi differenze tra il  ricevere una certa dose di radiazioni in tempi brevissimi, come nel caso di un’esplosione atomica, e invece  ricevere la stessa dose distribuita su tempi lunghi, come è successo a Chernobyl oppure a Fukushima.

L’attuale normativa di radioprotezione risulta quindi  eccessivamente stringente, prescrivendo che la dose annua per persona dovuta all’uso civile del nucleare non debba superare 1 mSv. Questo valore va confrontato con la dose media naturale in Italia che è di 3,4 mSv/anno, oltretutto con forti variazioni da luogo a luogo. Gli abitanti di Orvieto, per esempio, sono soggetti a 4,9 mSv/anno, cioè cinque volte il limite di legge per le radiazioni di origine artificiale. E qui va precisato che non vi è alcuna differenza fra le radiazioni di origine naturale ed artificiale.

Aggiungiamo che l’attuazione di questa normativa risulta estremamente costosa, comportando una spesa che, per i Paesi occidentali, anni fa è stata valutata, forse con qualche larghezza, in 2,5 miliardi di dollari per ogni ipotetica vita umana salvata [2].  Fatto considerato non etico, a fronte della valutazione di circa 100 $ per ogni vita umana salvata nei paesi in via di sviluppo dalle malattie infettive e dalle altre patologie più diffuse.

 

L’ipotesi dell’ormesi
C’è una scuola di pensiero secondo la quale le basse dosi di radiazione potrebbero addirittura risultare benefiche per gli esseri viventi. L’idea è che l’esposizione ai bassi livelli, quelli del fondo naturale o di poco maggiori, solleciti l’attivazione delle difese naturali dell’organismo mettendole in grado di proteggerlo più efficacemente da successive esposizioni a livelli più elevati. Con un processo analogo a quello della mitridatizzazione, cioè l’assunzione di piccole quantità di veleno che comporta un aumento della resistenza a dosi più elevate. Tale processo, che ha ampi riscontri in ambito tossicologico, prende il nome di ormesi.

Questa tesi è controintuitiva. Ma trova forte sostegno in alcuni recenti lavori sperimentali, su cui vale la pena di soffermarsi. Un gruppo di studiosi italiani ha svolto ricerche su cellule viventi cresciute nelle medesime condizioni ma in due siti diversi: a Roma, cioè in un ambiente dove è presente la radiazione naturale (2,9 mSv/anno), e nei laboratori sotterranei del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dove il livello delle radiazioni è ottanta volte inferiore grazie ai 1400 metri di roccia che schermano la radiazione cosmica [3]. Sono state utilizzate cellule di Saccharomyces cerevisiae, poi di Hamster e infine cellule umane.  I risultati  concordano nell’indicare che, quando vengono sottoposte a dosi moderatamente elevate di radiazioni e ad agenti chimici aggressivi,  le cellule cresciute al Gran Sasso in un ambiente privo di radiazioni subiscono danni al DNA maggiori di quelle cresciute a Roma.  E’ possibile interpretare questi risultati ammettendo che le sollecitazioni dovute alla radiazione naturale esercitino una azione stimolante sui meccanismi biologici di riparazione dei danni al DNA.

A conclusioni analoghe portano i risultati preliminari di un esperimento sulla crescita di batteri  svolto  sia in superficie che a profondità di 650 metri dentro una  miniera di sale a Carlsbad (New Mexico, USA), in cui si vede che lo sviluppo della colonia batterica è sfavorito dalla riduzione della radioattività ambientale [4]. 

Menzioniamo infine un lavoro sperimentale, svolto presso il MIT [5], riguardante i danni al DNA causati dalla somministrazione della stessa dose di radiazioni in tempi brevi oppure diluita nel tempo. Si è irraggiato un gruppo di topi con una dose di 105 mSv nell’arco di 1,4 minuti, mentre ad un altro gruppo la stessa dose è stata diluita in 5 settimane, cioè a un ritmo che era comunque 400 volte superiore a quello del fondo naturale. I risultati, ottenuti grazie a metodi d’indagine a livello molecolare, mostrano che nel caso di irraggiamento intenso si hanno lesioni del DNA, mentre invece non si riscontrano danni se la stessa dose è diluita nel tempo.

Lo stato attuale del dibattito
Il dibattito sulla pericolosità delle piccole dosi di radiazioni, come si è detto, è aperto. Alla luce sia dei numerosi studi epidemiologici che sono stati svolti nei decenni passati tra gli addetti all’industria nucleare e fra gli abitanti delle regioni più radioattive del pianeta, sia dei risultati degli studi sperimentali ricordati prima. Questo dibattito, al quale è stato recentemente dedicato un fascicolo di una rivista specialistica [6],  riguarda sostanzialmente la forma  della relazione fra dose e rischio di cancro, per  dosi basse, tra 0 e 100 mSv. 

Le diverse alternative sono mostrate nella figura, dove l’asse orizzontale rappresenta la dose D. l’asse verticale la risposta R, cioè la pericolosità, nei seguenti casi: linearità senza soglia (a), linearità con soglia (b), effetti di ormesi (c), effetto sopralineare (d), per cui le piccole dosi risultano più pericolose che nel caso lineare.

L’interesse verso la problematica della risposta alle basse dosi è testimoniata dall’avvio di iniziative di incentivazione e di coordinamento delle ricerche, sia negli Stati Uniti che in Europa [7], con programmi di attività a lungo termine.

Allo stato attuale, comunque, l’opinione ufficialmente accreditata è quella basata sulla teoria della linearità senza soglia, espressa dal comitato BEIR (Biological Effects of Ionizing Radiation, Effetti biologici delle radiazioni ionizzanti) del Consiglio Nazionale delle Ricerche degli Stati Uniti nel rapporto BEIR-VII [8], che risale al 2006. Da questo rapporto riprendiamo le conclusioni relative all’ormesi. “Abbiamo esaminato le dimostrazioni relative agli effetti ormetici con particolare riferimento ai lavori più recenti. Sebbene non manchino esempi di effetti stimolanti o protettivi nella biologia delle cellule e degli animali, la maggior parte dell’informazione sperimentale disponibile non supporta la tesi che i bassi livelli di radiazione abbiano effetti benefici. Il meccanismo di questi possibili effetti resta oscuro. A questo punto, l’ipotesi che effetti ormetici stimolanti da parte di basse dosi di radiazione ionizzante comportino benefici significativi per la salute umana che eccedano gli effetti negativi dell’esposizione alle radiazioni è priva di giustificazione”.

L’ICRP, la Commissione organo di vertice della radioprotezione, sulle raccomandazioni della quale vengono definite le legislazioni nazionali, rileva d’altra parte che la relazione lineare è una ipotesi che va applicata ai fini preventivi della radioprotezione ma non può essere impiegata per la valutazioni dei morti conseguenti ad esposizioni a basse dosi, come ad esempio nel caso di un incidente nucleare.

 

Rigraziamenti

Ringrazio il prof. Giorgio Trenta, la dottoressa Maria Antonella Tabocchini, il prof. Francesco Mauro e il prof. Paolo Saraceno per la lettura del manoscritto e gli utili commenti e suggerimenti.

 

Riferimenti

 [1] G.V. Pallottino, La radioattività intorno a noi – Pregiudizi e realtà, Dedalo, 2014

[2] Z. Jaworowsky, Radiation Risk and Ethics, Physics Today 52: 24-29, settembre 1999. Commenti nel fascicolo di aprile 2000.

[3] C. Carbone et al.  Effects of deprivation of background environmental radiation on cultured human cells, Nuovo Cimento B 125B: 469-477, 2010.                               

[4] G. Smith et al. Exploring Biological Effects of Low Level Radiation from the Other Side of Background, Health Physics 100: 263-265, 2011.

[5] W. Olipitz et alIntegrated Molecular Analysis Indicates Undetectable Change in DNA Damage in Mice after Continuous Irradiation at ~ 400-fold Natural Background Radiation Environ. Health Persp. 120: 1130-1136, 2012. In rete: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3440074/pdf/ehp.1104294.pdf

[6] Fascicolo speciale “On the role of linear and nonlinear dose-response in public decision-making”, Dose-Response, vol. 10, n. 2, dicembre 2011. In rete: http://dose-response.metapress.com/app/home/main.asp?referrer=default

[7] HLEG report on European Low Dose Risk Research, EUR 23884, gennaio 2009. In rete: http://ec.europa.eu/research/energy/pdf/hleg_report_-_january_2009.pdf

[8] Health Risks from Exposure to Low Levels of Ionizing Radiation: BEIR VII Phase 2, National Academies Press, 2006. In rete: http://www.nap.edu/openbook.php?isbn=030909156X

NOTA
Articolo presentato il 15 maggio 2014, accettato dopo review il 21 giugno 2014.

 

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