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EUROPA VERSUS GLOBALIZZAZIONE

Il calabrone non vola più

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di: Angelo Spena
Negli anni ’90, la formazione dell’Unione Europea fu una sfida alle leggi dell’economia e della politica. Poi la globalizzazione ha svelato la realtà: l’Europa non conta nel grande gioco planetario, e non sopravviverà se non si farà Stato. Ma per questo può solo contare sul traino della Germania. Quale sarà la decisione?


Scriveva Sergio Romano sul “Corriere della Sera” del 7 maggio 2012, a proposito di “coloro che alla UE e alla globalizzazione … attribuiscono tutti i mali del momento”: scriveva appunto che “per molti, sono due volti della stessa cosa”. Già. Molti lo pensano. E se invece Europa e globalizzazione fossero due entità non solo indipendenti, ma sostanzialmente contraddittorie e forse incompatibili in quanto figlie di due epoche diverse seppure contigue?

Anni  novanta. I padri dell’Europa progettano una creatura mercantile ma non politica. Non potrebbero fare diversamente. Già sulle “radici giudaico-cristiane ” non c’è accordo. Figuriamoci sul tronco. L’Europa monetaria, senza uno Stato che batta moneta e una banca d’ultima istanza (prezzo da pagare per differire la speculare questione di armare un esercito – lacuna impietosamente evidenziata in Libia nel 2011) costituisce così, all’alba del XXI secolo, un singolare esperimento: un monstrum, che intende essere ugualmente player mondiale, imponendo la sua anomalia in forza del suo ruolo. Una sfida alle leggi dell’economia e della politica, lanciata sulla base di una sorta di arroganza storica rétro, in un mondo in cui Europa e Stati Uniti governano il pianeta, la Russia è in ginocchio, il Regno Unito naviga per i sette mari della finanza, i Bric non sono ancora Bric ma solo Paesi “in via di sviluppo”. Avrebbe, forse, funzionato, se il post-colonialismo post-caduta del muro fosse vissuto ancora a lungo.

Anni duemila. Irrompe la globalizzazione, il centro del pianeta si sposta a est. Dieci anni dopo “attenti, l’Europa è solo il 5% della popolazione mondiale” ammonisce ambiguamente Angela Merkel nel 2011, l’America si affanna a esorcizzare parola e fatti del declino, e se Danilo Taino sul “Corriere della Sera” del 24 aprile 2012 scrive della Germania che per tassi di crescita è il “sesto Brics”, è già un complimento.

E l’Europa? Non ha più il peso, dunque il potere, di imporre il suo monstrum. Non dà più le carte, subisce. L’eccezione non ha più la forza del paradosso che conferma la regola, semplicemente perché il paradigma è irreversibilmente cambiato. La globalizzazione ha sparigliato le carte ai padri dell’Europa mercantile. Non sbagliarono nel progettare l’Europa. Semplicemente, sbagliarono nel non prevedere (ma era possibile?) cosa sarebbe stato il resto del mondo di lì a un decennio, appena scatenate le energie compresse dalla guerra fredda.

Ora cosa accadrà? L’Europa può ormai competere solamente se gioca con il modulo degli altri. Come nel “calcio totale”, ricordate? Niente più furberie, il contropiede, il mestiere. Nel pianeta delle quantità, l’Europa sopravvive solo se farà massa critica, se sarà Europa-stato. Ma come? Contrastata dalle diffidenze dell’America (che dovrebbe rapidamente prendere atto dell’anacronismo di una competizione stolta con l’Europa, e non più tollerare la sua Tortuga di corsari del rating – moderni Francis Drake della corona) e dal distacco dell’algida Albione iperterziarizzata, l’Europa – piaccia o no – può solo contare sul traino della Germania.

Siamo alle soglie di una svolta epocale. Dopo un secolo, non è più la Germania ad aspirare alla guida d’Europa: è Europa che chiama. Dopo cento anni di conflitti, si chiude una partita estenuante e tragica tra la potenza d’oltremare britannica e la potenza territoriale tedesca per il controllo (nella duplice accezione, per l’una riduttiva, per l’altra egemonica) del continente. Bene, era ora.

Il punto è che la scelta, per quanto volonterosamente, o ambiguamente, o astutamente gli altri europei (Francia e Italia in primis) possano premere sui governanti tedeschi, è del capitale e dell’opinione pubblica, cioè della gente di Germania, cosa ben diversa dai leader pro-tempore. E la Germania è sola nella sua scelta. Scelta dura, difficile, secolare. Guidare una Europa ampia e disomogenea, problematica e certo poco tedesca, ma dai confini sicuri ed estesi; o rinchiudersi in una cittadella mitteleuropea (già, in fondo la Mitteleuropa mercantile e storica) unita e tetragona, ma circondata da Paesi sempre più suscettibili all’influenza di russi e islamici a est, di britannici e americani a ovest? Cos’altro sarebbe in fondo se non questo, l’Europa “a due velocità”? Tertium non datur, a meno che al disgregante “ognun per sé” possa riconoscersi la dignità di terza via, ma verso il declino.

Il dilemma tedesco – inutile fingere di non vederlo – serpeggia ormai da qualche tempo, e merita rispetto. La Germania è davanti alla storia, lusingata tra la via solitaria di player planetario, magari in asse con la Cina, e un ruolo regionale con il fardello della responsabilità di un’Europa dai connotati ancora imprecisi. “Il prossimo impero tedesco potrebbe nascere da una catena di errori” ammonisce George Soros. Eppure, quasi una nemesi storica, quell’obiettivo di egemonia continentale oggi a portata di mano sembra aver perso insieme il suo fascino ideale e il suo valore economico.

Purtroppo l’accelerazione degli eventi mondiali non lascia molto tempo per decidere. E non sarà facile, soprattutto per i governanti che devono trarre il dado. Finora frau Merkel ha lasciato impregiudicata ogni possibilità – mediare è il suo talento – ma l’attrazione per la via planetaria è forte. Per noi – e per il pianeta – l’auspicio dovrebbe esser chiaro: sarebbe ingiusto che la Germania abbandonasse l’Europa, disancorandosi dal nostro continente per esplorare nuove mirabolanti e rischiose aggregazioni. Perché il rischio è soprattutto che sia ancora vero – come diceva Goethe – che i tedeschi, dovendo scegliere tra insicurezza e ingiustizia, finiscano con il privilegiare la loro sicurezza.

Globalizzazione ed Europa. Altro che due facce della stessa medaglia. La prima che in vent’anni divora la seconda. O che salva la storia da un futuro tempestoso.

 

Tratto da: Centro studi Sviluppo Relazioni per la Sicurezza (TTS), 9 giugno 2012 - http://www.ttsecurity.net

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