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LA CRISI DELL’ILVA

Inquinatori e inquisitori: con chi trattiamo per primo?

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di: Francesco Mauro
Il percorso della crisi dell’ILVA di Taranto e le iniziative della magistratura inquirente vengono ricapitolate fino al recente maxi-sequestro. Sono accennati i possibili sviluppi della crisi come la nazionalizzazione o il commissariamento, e vengono prese in considerazione le responsabilità nella vicenda e gli effetti dirompenti sull’occupazione, la politica industriale e l’economia nazionale


 

La crisi dell’ILVA di Taranto continua ad aggravarsi. L’andamento della crisi sembrerebbe governato da un pregiudizio, quasi un assunto filosofico, con un percorso preordinato in crescendo.

Riepiloghiamo le tappe della vicenda:

- Il 26 luglio 2012 il gip Patrizia Todisco, sulla base di un rapporto richiesto ai carabinieri del NOE, dispone il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto, e dispone l’arresto di Emilio e Fabio Riva, padre e figlio proprietari dell’impianto, e di vari dirigenti della società – arresti poi confermato dal Tribunale del riesame.

- Nell’ottobre del 2012 viene varata l’AIA (autorizzazione di impatto ambientale) che fissa obiettivi di tipo europeo dal punto di vista ambientale e prescrive vincoli precisi.

- In questo quadro, al fine di sbloccare il sequestro, il governo Monti emana il 3 dicembre un decreto-legge, poi convertito dal Parlamento, contenente “Disposizioni urgenti a tutela della salute e dell’ambiente”, la cui applicazione permetterebbe la conduzione delle attività siderurgiche. A seguito di un ricorso della Procura di Taranto, la Consulta conferma la legittimità costituzionale della norme contenute nel provvedimento governativo.

- Il 22 maggio 2013 entra in azione la Procura di Milano che indaga i Riva padre e figlio (tuttora agli arresti domiciliari, mentre un altro fratello, Nicola, è indagato) per truffa allo Stato mediante esportazione in paradisi fiscali di un miliardo e 200 milioni di Euro; sono accusati anche due professionisti per riciclaggio.

- Il 24 maggio il gip Todisco, su richiesta del capo della Procura Sebastio, dispone come misura cautelare il sequestro di 8,1 miliardi di Euro considerati come la somma che l’ILVA avrebbe risparmiato con la mancata conduzione dei lavori secondo le norme ambientali. Tecnicamente, il sequestro riguarda la finanziaria FIRE che detiene l’83% dell’ILVA e che viene affidata in custodia giudiziaria al commercialista Mario Tagarelli di fiducia del magistrato (già nominato custode a suo tempo anche dell’area a caldo).

- Il 25 maggio si dimettono i vertici dell’ILVA che erano stati nominati dopo il primo  sequestro (il presidente Ferrante) o ancora più recentemente (l’amministratore delegato Bondi).

Diventa così sempre più alto il rischio di una chiusura dell’ILVA di Taranto, il sito siderurgico italiano con il maggior numero di occupati (12.000, 40.000 con l’indotto), il maggior presidio industriale del Mezzogiorno, punto chiave della riorganizzazione della siderurgia nazionale. Prevarrebbe così una logica di deresponsabilizzazione sociale, nonostante che la Consulta abbia giudicato legittimo assicurare la continuità produttiva dell’impianto.

Ma c’è di più. Viene fatta circolare l’ipotesi di una nazionalizzazione dell’ILVA, che richiederebbe: l’autorizzazione dell’Unione Europea; il reperimento di appositi fondi governativi (per gli eco-bonus, le spese legali, il recupero delle perdite, il riavvio della produzione, ecc.); l’approvazione delle forze politiche; e comporterebbe ulteriori problemi per il bilancio dello Stato e per il contribuente. Vi è poi come variante l’ipotesi di un commissariamento straordinario della società per insolvenza, peraltro dovuta all’azione giudiziaria caratterizzata da un maxi-sequestro e alla perdita di esercizio di 50 milioni di Euro al mese. Sullo sfondo l’ombra della deindustrializzazione italiana con la felicità della concorrenza straniera, in particolare francese.

In questo scenario, tre punti a nostro avviso vanno considerati. Il primo è come sia possibile che la politica industriale di un paese venga decisa non da governo e Parlamento, ma da elementi della magistratura (soprattutto inquirente) mediante provvedimenti forse legittimi ma che possono avere effetti dirompenti sulla fabbrica, sul benessere dei cittadini, sull’economia nazionale e sul funzionamento dello Stato stesso.

Il secondo punto riguarda il disimpegno e il silenzio di coloro che del percorso dell’ILVA sono stati spettatori se non corresponsabili delle azioni e omissioni: Comune, Provincia e Regione (che rifiutarono a suo tempo la “via giudiziaria” ma non si impegnarono nel cercare soluzioni); i politici che accettarono i finanziamenti (regolari) dai Riva; i sindacati soprattutto in occasione del referendum; i silenziosi deputati e senatori del circondario; tutti coloro che avrebbero dovuto vigilare sull’ILVA; per finire ai lamentosi ma di fatto silenti vertici di Confindustria e ai teorici di un’utopia anti-sviluppo.

Il terzo punto riguarda il delicato problema dei potenziali effetti nocivi sulla salute umana, sugli ecosistemi e sull’ambiente. Un uso spregiudicato delle analisi statistico-epidemiologiche – di cui abbiamo più volte parlato - e del monitoraggio ambientale rende impossibile distinguere tra i rischi effettivi dovuti all’impianto e quelli dovuti ad altre sorgenti. Senza nulla togliere alle esigenze di prevenzione e protezione e alle normative ambientali, l’attribuire all’ILVA anche ciò che non le spetta o che non può essere provato può portare a danni ben peggiori di quelli che si vogliono evitare, con ulteriori aumenti della disoccupazione ed l’aggravarsi della crisi economica e finanziaria dell’ILVA, di Taranto e del Paese.

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