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ASPETTANDO L’ESITO DEL CONFRONTO SULL’ILVA DI TARANTO
L’altoforno spento dai marziani?
- di: Mario Signorino
- “Articolo 1: L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Così dice la Costituzione, ma il magistrato di Taranto sembra poco attento all’occupazione e propone uno scenario centrato sulla punizione degli inquinatori e sul blocco della produzione. Davvero non si può mettere d’accordo la tutela della salute con la salvaguardia del posto di lavoro? Si può indurre un’impresa a comportamenti virtuosi, se è viva. Se è morta, è una sconfitta per tutti.
Ora sulla scacchiera dell’Ilva di Taranto quasi tutti i pezzi sono al loro posto. Il ministro dell’ambiente ha annunciato il rilascio della nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), rinviando al 31 gennaio e al 31 maggio 2013 il completamento della disciplina (su rifiuti e materiali, discariche interne, acque, sistema di gestione ambientale, energia). L’Autorizzazione è immediatamente esecutiva. Si attende adesso che il finale di partita inizi e dia il suo verdetto: se non sarà patta, qualche re cadrà.
Finale di partita
Più che una partita è una guerra fredda, che condizionerà nel futuro i modi e i costi dell’ammodernamento dei cicli produttivi e le intricatissime problematiche del danno ambientale. Mentre scriviamo, la vicenda di Taranto non si è conclusa con una soluzione condivisa. Non sappiamo perciò come interagirà la nuova Autorizzazione ambientale con l’atto di sequestro degli impianti firmato dal GIP. È possibile che si arrivi a un armistizio tra magistrati e Ministero dell’ambiente, ma è più probabile che la guerra fredda si scaldi e faccia precipitare la situazione. Qualunque sia l’esito finale, è importante considerare i diversi attori - gli uomini dell’amministrazione, gli imprenditori, i lavoratori, i magistrati – con le loro idee, obiettivi, comportamenti. Servirà per il futuro. Perché i conflitti si ripeteranno, e la posta in gioco sarà sempre più importante: quasi una resa dei conti su mezzo secolo di iniziative industriali.
In un contesto dominato dall’antagonismo tra esecutivo e magistratura, in questo duello a due, il soggetto più debole sono i salariati dell’Ilva, minacciati da un crollo occupazionale, criticati da molti ambientalisti, indeboliti da una rappresentanza sindacale colpevolmente spaccata e, anche per questo, del tutto marginale.
Ma anche la parte industriale appare debole, nella scomoda posizione di chi deve rispondere di disastri ambientali passati e presenti, decisamente inadeguata a mantenere un ruolo attivo in conflitti potenzialmente rovinosi. Meraviglia che, nella controversia di Taranto, non ci sia stato un intervento alto della rappresentanza imprenditoriale: un’assenza che verrà pagata cara, quando saranno poste sul tavolo tutte le problematiche del danno ambientale. Perché in queste settimane a Taranto si decidono le sorti di molte future controversie.
Buoni e cattivi
In questa vicenda, ci sono molti cattivi e pochissimi buoni. Sono evidenti gli eccezionali ritardi dei governi, della regione e degli enti locali nelle misure anti-inquinamento. Se si considera che i primi 30 anni della vita produttiva dell’impianto si sono svolti nell’assenza quasi completa di normative ambientali, Il minimo che si possa dire è che il confronto sull’impatto ambientale dello stabilimento avviene con mezzo secolo di ritardo.
Anche i dati più recenti sono poco incoraggianti: dopo quattro atti d’intesa nel 2003, 2004 e 2006, il grande accordo di programma del 2008 tra tutti i soggetti interessati e l’Autorizzazione integrata ambientale del 2011, siamo ancora a discutere, alle prese con decisioni che sembrano non decidere nulla: encomiabile dunque l’intervento della magistratura.
Tuttavia, anche in questo intervento sono ravvisabili aspetti critici: in quanto presenta delle soluzioni ma crea anche nuovi problemi. Intanto, lo scenario di riferimento è parziale: l’offensiva giudiziaria investe gli ultimi 17 anni, vale a dire la gestione Riva, e non tocca i 30 anni precedenti di gestione pubblica. La delimitazione dell’indagine è motivata con argomentazioni che appaiono frettolose e approssimative. Come se ai magistrati di Taranto non importasse tanto questo, quanto il “castigo” dell’attuale vertice dell’Ilva.
In effetti, l’ordinanza del GIP del 25 luglio 2012 “sistema” l’Ilva come si fa con un acerrimo nemico: gli impianti sono messi sotto sequestro, il vertice arrestato, la gestione trasferita al magistrato attraverso i “custodi”, oneri economici imprecisati ma sicuramente giganteschi. Dell’Ilva non va bene niente, nell’ordinanza: né le dimensioni, né i livelli di produzione, né la localizzazione a ridosso della città. Se poi si aggiunge il giudizio negativo che il magistrato formula sulla siderurgia in generale, si capisce che è assai difficile che da questa vicenda l’Ilva possa uscire viva. Delenda est.
Nessuna fenice a Taranto
E la cosa preoccupa. È come un gigantesco esproprio, una nazionalizzazione col botto. Secondo l’ordinanza, l’Ilva dovrebbe uscire dal mercato e vivere, non per produrre, ma per espiare dedicandosi al disinquinamento e alle bonifiche, e poi, dopo un numero imprecisato di anni, riemergere forse dall’abisso. Ma no, nessuna fenice nidifica a Taranto: una volta fuori dal mercato, non ci sarà alcuna resurrezione, e neanche una migliore qualità ambientale, non ci sarà niente. Quella contenuta nell’ordinanza del GIP è una sentenza di morte. Non solo per l’Ilva, ma anche per Taranto.
Chi vive nel mondo reale sa che la possibilità di riprendere la produzione è il requisito essenziale, non solo per il mantenimento dell’occupazione, ma anche per garantire che l’opera di bonifica sia portata a termine. Senza questo requisito non si cava un ragno dal buco, meno che mai si possono salvaguardare la salute e l’ambiente. S’è mai vista una fabbrica che lavora per non produrre nulla, solo perdite? Insistere su questa nota denuncia mancanza di realismo, significa spingere l’imprenditore alla fuga.
Forse non meritano di meglio quelli dell’Ilva, ma le imprese e i cittadini devono poter contare su scelte politiche ragionate e trasparenti. Devono sapere se, dopo Taranto, si continuerà con l’azzeramento degli stabilimenti con impatti ambientali significativi, o si perseguiranno invece formule più flessibili, basate sull’integrazione delle politiche, che consentano lo sviluppo economico con severe garanzie ambientali. Sono scelte che, per la loro incidenza sulla vita del paese, devono essere deliberate con il massimo della forma e nelle sedi adeguate, non nelle ordinanze dei magistrati.
Per questo non ci piace l’andazzo che ha preso la disfida di Taranto. In questa città non è in atto una scontro tra buoni e cattivi, in cui i difensori dell’ambiente e della salute si battono contro gli ascari del profitto; c’è un confronto duro che, oltre a preoccupanti criticità, fa emergere elementi positivi, come l’impegno dell’esecutivo a superare le carenze del passato e la presenza forte della magistratura.
Ma se i magistrati agiscono come se fossero titolari di scelte politiche, fino ad essere percepiti come leader di una campagna politica, anche se la cosa è fatta “a fin di bene” si crea un pericoloso disordine istituzionale e s’imbrocca una via che porterà sì alla punizione dei dirigenti dell’Ilva, ma non aiuterà in alcun modo la soluzione dei problemi.
Aut aut
Nell’ordinanza del luglio 2012, il GIP sostiene che la tutela della salute debba prevalere su ogni altro valore costituzionalmente garantito. Perché questa forzatura? La nostra Carta non giustifica questa visione unilaterale, ma dà un posto preminente al lavoro e alla sua tutela fin dal primo articolo e dalla prima riga: ““L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (ma vedi anche: Articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; Articolo 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”).
Non si tratta di una questione formalistica: il blocco produttivo del centro siderurgico comporta inevitabilmente la chiusura dell’impianto e il licenziamento delle maestranze. Si vuole veramente mettere a rischio l’occupazione nel pieno della crisi mondiale, in un’Italia schiacciata dalla recessione, in un Mezzogiorno con la disoccupazione oltre il 25 per cento? Dall’Ilva dipende il 75% del PIL della provincia di Taranto; 12.000 i dipendenti diretti, 100.000 la stima dell’indotto. È incomprensibile la sottovalutazione di questo possibile dramma. Qualcuno si ricorda della rivolta di Reggio Calabria di 40 anni fa? Oggi sarebbe molto peggio.
Questo conflitto, dunque, va spento. I magistrati non devono temere di apparire sconfitti: è chiaro che senza il loro intervento non si sarebbe arrestata la manfrina dei rinvii e degli impegni di carta. Ma in un contesto così difficile, l’azione della magistratura non può essere una variabile indipendente, non si può professare un “unilateralismo” che si risolve nel rifiuto di una strategia unitaria. Non può essere che una parte dello Stato spinga verso un obiettivo, mentre l’altra rema contro.
Bisogna dunque porre con chiarezza la domanda: il magistrato deve tener conto o no degli effetti delle proprie sentenze, oppure il suo impegno non deve andare oltre il momento dell’irrogazione della pena? L’ordine o potere giudiziario fa parte del sistema Italia, o va considerato un elemento estraneo che non condivide i valori fondanti della repubblica? In altri termini, il magistrato è un’istituzione autonoma ma operante all’interno della nostra architettura istituzionale, o è un alieno di passaggio, un ufo, un marziano, che in nessun modo si occupa del pianeta Terra? Che cosa si sta preparando dietro gli altiforni di Taranto?