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SULLA SIDERURGIA ITALIANA: QUASI UNA GUERRA IDEOLOGICA

La disfida di Taranto

di: Mario Signorino
La tutela dell’ambiente è incompatibile con la difesa del posto di lavoro? Su questa alternativa secca è in corso a Taranto un conflitto tra governo e magistratura che ci riporta indietro di decenni, alle prime parole d’ordine del movimento ambientalista. Pensavamo di essere culturalmente più avanzati, di avere assorbito bene la lezione di Rio sulla compatibilità tra ambiente e sviluppo. E invece no, molti sono rimasti fermi agli anni ’70 e continuano a riproporre i vecchi termini della questione ambientale con certezze di tipo ideologico.


 

Ambiente contro occupazione. L’impressione che si ricava dalle cronache tarantine non è quella di uno Stato che si impegna con tutte le sue risorse per risolvere un grave problema, ma piuttosto di una sfida tra poteri che spingono in direzioni diverse. Ambiente o sviluppo, allora? In verità, se non ci saranno ripensamenti, disponibilità a una sintesi, a un’integrazione tra questi valori prioritari, se la ricerca di una soluzione verrà respinta come cedimento, la storia finirà comunque male, magari senza risanamento ambientale e senza occupazione.

I magistrati fondano le loro ragioni sulle carenze e i ritardi dell’amministrazione; sostengono che, di fronte a un problema complesso come quello di Taranto, il sistema di governo dell’ambiente ha funzionato male, ha fallito. Ma questi difetti non si correggono dando l’impressione di voler mettere il guinzaglio al governo e di appropriarsi delle sue competenze.

L’ILVA di Taranto ha una storia lunga più di mezzo secolo. Nasce in un tempo (1961) in cui manca qualsiasi consapevolezza dei problemi ambientali, con un decennio d’anticipo sulla prima iniziativa importante di tutela (1969, USA, Amministrazione Nixon, prima legge-quadro ambientale, istituzione dell’EPA e della procedura di VIA). Negli anni ’70 si muovono i maggiori paesi industrializzati, ma non l’Italia, che rimane ferma, non provvede. Comincerà a muoversi solo alla fine degli anni ’80 con il governo Craxi (1986, istituzione del Ministero dell’ambiente), ma non riuscirà mai a cancellare del tutto il ritardo accumulato nei primi anni. Passerà ancora molto tempo prima che un’iniziativa degli “Amici della Terra” - non del governo, non del parlamento quindi, ma di una Onlus -, porti all’istituzione delle agenzie ambientali, titolari dei controlli (1991-1994).

Questo significa che almeno fino al 1994 non ci sono stati all’ILVA veri controlli ambientali. Dal punto di vista dell’inquinamento, il primo trentennio di attività rimane perciò un punto oscuro. Dopo, comincia il processo di adeguamento dell’impianto, ma pare che non sia stato risolutivo. Perché?

Non certo per mancanza di norme e procedure. La storia della normativa ambientale, ricostruita da Belvisi in riferimento all’ILVA (vedi articolo "ILVA, l'ultimo impianto"), testimonia di un viluppo di comandi e divieti formalmente severissimi, fors’anche esagerati, ma nei fatti alquanto inefficaci. Belvisi ha individuato una serie di autorizzazioni concesse all’ILVA a partire dagli anni ’90, ma non è riuscita a rintracciare atti simili nei decenni precedenti. Questo non significa che non esistono, ma solo che non disponiamo di informazioni complete.

La qualità, l’efficacia, i tempi e i costi dell’adeguamento dell’impianto sono oggetto del conflitto in atto a Taranto tra la magistratura, il governo e i sindacati.

Per Taranto, l’elemento principale è un mega accordo di programma del 2008 fra 4 ministeri, regione, provincia, vari comuni e imprese; produce un’istruttoria di due anni, 40 riunioni, due conferenze di servizi, infine nell’agosto 2011 il decreto AIA (Autorizzazione integrata ambientale) con prescrizioni e l’immancabile piano di monitoraggio.

Tutto risolto dunque? Macché, il passaggio dalle parole ai fatti si rivela improbo. L’impressione è che ci sia una iper-produzione normativa, soprattutto europea, con l’Italia affannosamente a inseguire. Tanta normativa e molto complicata, che si moltiplica incessantemente in Italia, in Europa, all’ONU. “Aria fritta”, avrebbe detto Ernesto Rossi. Ci si “occupa” dei problemi, ma risolverli non pare il fine prioritario.

Sembra che, mentre le burocrazie nazionali – o almeno quella italiana – stentano a tenere il passo con le direttive e i regolamenti esistenti, i burocrati di Bruxelles varino nuove e più complicate normative, in un crescendo ossessivo, forse controproducente per la stessa tutela ambientale. C’è da chiedersi se c’è ancora una razionalità nel sistema, se qualcuno, a Bruxelles come a Roma, lo controlli veramente, o si applichi con serietà all’implementazione.

Nel 1992, la conferenza di Rio de Janeiro, approvando l’indirizzo dello “sviluppo sostenibile”, raccomandò agli Stati di migliorare le loro politiche tenendo conto in modo integrato dei valori prioritari, e di fare in modo che tali valori fossero condivisi, al loro interno, da tutte le istituzioni e da tutti i poteri. L’Italia ha aderito con gran clamore ma, come si vede, alla prova dei fatti non è riuscita a liberarsi dai vecchi vizi, dalle vecchie politiche e dai loro conflitti. Nell’ottica di Rio, per la siderurgia italiana occorre costruire una soluzione che risani l’ambiente senza provocare, con la chiusura degli impianti, una tragedia sociale.

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