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IN ITALIA SEMPRE PIU’ FORME DI POTERE ASSOLUTO

Sanzione senza giudizio

di: Beniamino Bonardi
Nel 1991 fu approvato il decreto-legge che consente al governo di sciogliere i consigli comunali e provinciali infiltrati dalla criminalità organizzata di tipo mafioso e di commissariarli per un periodo estendibile sino a due anni. Questo potere viene attivato su iniziativa dei prefetti sulla base, non di sentenze, ma di indizi senza prove, prescindendo dal principio della responsabilità personale. Prassi analoghe si diffondono anche in altri settori, ad esempio in materia di inquinamento industriale. Ma c’è più di un dubbio sulla loro costituzionalità.



La legge che consente al governo di sciogliere i consigli comunali e provinciali per infiltrazioni e condizionamenti di tipo mafioso risale al 1991 e oggi corrisponde all’art. 143 del Decreto legislativo 267/2000, cioè il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

La norma stabilisce che i consigli possono essere sciolti, con decadimento di tutti gli organi dell’ente, quando “emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica”.

Lo scioglimento viene disposto con Decreto del Presidente della Repubblica ed è adottato dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'Interno, sulla base di una relazione del prefetto competente, che riferisce su quanto emerso dalla commissione d’indagine da lui nominata. Il commissariamento del Comune può durare dai dodici ai diciotto mesi, prorogabili fino a un massimo di ventiquattro in casi eccezionali. Con il decreto di scioglimento viene nominata una commissione straordinaria di tre membri, per la gestione dell’ente.

La norma fu introdotta nell’ordinamento il 31 maggio 1991 con un decreto-legge del governo presieduto da Giulio Andreotti (Dc), con ministri dell’interno Vincenzo Scotti (Dc) e della giustizia Claudio Martelli (Psi). Il decreto fu presentato per la situazione di straordinaria necessità e urgenza determinatasi dopo l’esplosione di una faida sanguinosa tra cosche a Taurianova, a cui il ministro Martelli aveva reagito con quella che La Stampa definì “un’iniziativa senza precedenti”, chiedendo al collega Scotti di sciogliere il consiglio comunale del comune calabrese, per “evidente inquinamento mafioso”. Oggi, a ventitré anni di distanza, il comune di Taurianova è di nuovo commissariato per la terza volta, a causa d’infiltrazioni della criminalità organizzata, in applicazione delle norme previste da quel decreto-legge. La prima volta il consiglio comunale di Taurianova fu sciolto subito dopo l’emanazione del decreto-legge. La seconda volta nel 2009. Dopo i diciotto mesi di commissariamento, alle elezioni del 2011 fu rieletto lo stesso sindaco e molti componenti del consiglio sciolto. Nel luglio 2013 c’è stato il nuovo provvedimento di scioglimento del consiglio comunale.

Nel dibattito parlamentare furono diversi coloro che espressero preoccupazioni per un provvedimento ai margini dello Stato di diritto, ma alla votazione finale la maggioranza fu schiacciante, con i soli radicali e verdi contrari, oltre a qualche parlamentare in dissenso dal proprio gruppo. Alla Camera dei deputati i voti favorevoli furono 308, i contrari 15 e gli astenuti 11. Anche al Senato il decreto fu approvato a larga maggioranza.

Alcune delle critiche emerse durante il dibattito parlamentare furono fatte proprie dal Tar del Lazio, che presentò ricorso alla Corte Costituzionale, contestando la legittimità della legge in quanto:

a) consente di attribuire rilevanza a “collegamenti indiretti” di taluni amministratori con la criminalità organizzata, senza che essi siano oggetto di procedimenti penali o sottoposti a misure di prevenzione, come invece previsto da altre norme finalizzate a reprimere la criminalità organizzata;

b) prevede lo scioglimento dell’intero organo elettivo anche in presenza di collegamenti, diretti o indiretti, con la criminalità, soltanto da parte di alcuni amministratori;

c) stabilisce il permanere degli effetti dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali per un periodo da dodici a diciotto mesi, che di fatto comporta la sospensione sia del diritto di elettorato attivo, sia di quello passivo, e che determina la “sospensione dell'autonomia degli enti locali”, garantita dalla Costituzione.

Il ricorso fu respinto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 103 del 1993, che giudicò infondate le eccezioni sollevate dal Tar del Lazio. Il governo avrebbe voluto che la Corte giudicasse inammissibile il ricorso del Tar, sostenendo che il provvedimento di scioglimento di un consiglio comunale è un atto politico dell’esecutivo, assimilabile allo scioglimento dei consigli regionali per ragioni di sicurezza nazionale, e quindi non sindacabile in sede giudiziaria. La Corte respinse questa interpretazione, molto pericolosa dal punto di vista costituzionale, ma ne introdusse una nuova, altrettanto forzata, ammettendo lo scioglimento dei consigli sulla base di semplici indizi, sostenendo che la misura non colpisce l’insieme dei consiglieri che compongono il consiglio, ma il consiglio in quanto tale, e ha come fine il risanamento dell’ente. Quasi una sorta di intervento rieducativo, senza prove e senza processo.

Nella sentenza, la Corte osserva che la norma contestata non prevede la possibilità di sciogliere i consigli comunali e provinciali solo in presenza di collegamenti diretti o indiretti di alcuni amministratori con la criminalità organizzata ma richiede che sia evidente che questi collegamenti compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni. La sanzione dello scioglimento, sottolinea la Corte, non ha come destinatari tutti i consiglieri ma “l’organo collegiale considerato nel suo complesso, in ragione della sua inidoneità a gestire la cosa pubblica” e quindi può essere per molti versi assimilata a quella prevista dall'art. 39, comma 1, lettera a, della legge n. 142 del 1990, che contempla lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali “per gravi motivi d'ordine pubblico”, “per gravi e persistenti violazioni di legge”, nonché quando “compiano atti contrari alla Costituzione”.

Quanto alla durata dello scioglimento dei consigli, da dodici a diciotto mesi, più lungo rispetto ai tre mesi previsti per altre ipotesi di scioglimento dei consigli, la Corte Costituzionale sostiene che ciò “trova una sua ragionevole giustificazione nell’esigenza di evitare il riprodursi del fenomeno” di collegamenti con la criminalità organizzata, cosa che sarebbe più probabile se le nuove elezioni fossero immediate. “Il protrarsi degli effetti dello scioglimento può difatti consentire, nel frattempo, di intervenire sul terreno del ripristino della legalità, della eliminazione degli effetti prodotti dall'inquinamento criminoso, della creazione di condizioni nuove che, avvalendosi della precedente esperienza, permettano la ripresa della vita amministrativa al riparo dai collegamenti e dai condizionamenti cui si era voluto ovviare con lo scioglimento.” Secondo la Corte, questo prolungato periodo di scioglimento dei consigli non lede il diritto all’elettorato attivo e passivo, perché “non si è in presenza né di limitazioni legate al diritto di voto del singolo, né di limitazioni all'accesso alle cariche elettive, derivanti da condizioni personali del cittadino, bensì di effetti indiretti della misura sanzionatoria in questione che, come si è detto, è diretta a colpire non i singoli componenti dei consigli elettivi né, tantomeno, i cittadini, singolarmente considerati, del comune o della provincia, bensì l'organo elettivo nel suo complesso, al verificarsi di taluni presupposti di fatto, valutati in ragione delle pregiudizievoli evenienze che possono produrre. Una misura, quindi, che solo indirettamente si riflette su tutti i cittadini di quel determinato comune o di quella determinata provincia, non per conculcare i diritti di ciascuno di essi ma, al contrario, proprio in vista della già ravvisata esigenza di preservare la parte sana della comunità locale dall'influenza delle organizzazioni criminali”.

Per la Corte, infine, non si è in presenza di una sospensione dell’autonomia degli anti locali, perché la “particolare esigenza” che porta allo scioglimento dei consigli giustifica “che l’aspetto proprio delle autonomie, quale quello della rappresentatività degli organi di amministrazione, possa temporaneamente cedere di fronte alla necessità di assicurare l'ordinato svolgimento della vita delle comunità locali, nel rispetto delle libertà di tutti ed al riparo da soprusi e sopraffazioni, estremamente probabili quando sui loro organi elettivi la criminalità organizzata possa immediatamente riprendere ad esercitare pressioni e condizionamenti”.

Dopo oltre vent’anni, durante i quali sono stati adottati 229 provvedimenti di scioglimento di consigli comunali, arrivano proposte di modifica della legge del 1991, che però ne aggravano i connotati autoritari.  Ad esempio, lo scorso 3 aprile, presentando la proposta di relazione sui beni confiscati alla criminalità organizzata, la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, ha ipotizzato che, prima di arrivare allo scioglimento dei consigli comunali, “in alcune situazioni si potrebbero prevedere delle Commissioni di accompagnamento, che aiutino il sindaco a liberarsi di quelle parti compromesse che ci possono essere dentro un’amministrazione, ammesso che questo sia possibile. Io penso che, prima di sciogliere un consiglio comunale intero, forse si debbano allontanare i cattivi consiglieri comunali o che, prima di sciogliere una Giunta, magari ci sia da bonificare una parte dell'amministrazione comunale”. Insomma, caccia alle mele marce sempre sulla base di indizi, senza prove e senza le garanzie di un giusto processo.

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