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LE CAVE IN ITALIA

Sì, ma Quante Sono?

di: Fiorenzo Fumanti e Marco Di Leginio
Le cave costituiscono la fonte di materiali indispensabili per le costruzioni ed un settore economico importantissimo per molte zone del Paese, ma il loro impatto sull’ambiente può essere devastante. Sarebbero quindi necessari una regolamentazione organica e controlli attentissimi. In Italia, invece, dove vige un regio decreto del 1927 e l’attività amministrativa è fortemente differenziata da regione a regione, non si può stabilire con esattezza neppure il numero di quelle regolarmente autorizzate, per non parlare dell’abusivismo, mentre le tariffe, tra le più basse in Europa, favoriscono l’estrazione di nuovo materiale anziché il riciclo degli inerti.


Le attività di estrazione delle risorse minerarie rappresentano la fonte primaria ed imprescindibile di tutte le altre attività. L’intera esistenza dell’umanità è legata allo sfruttamento delle risorse minerarie. Tutti gli oggetti che costellano la nostra vita quotidiana sono direttamente o indirettamente legati all’estrazione di minerali, anche se, come utilizzatori di prodotti finiti, non sempre ce ne rendiamo conto. Tali attività però, anche quando regolamentate, risultano particolarmente invasive e possono determinare serie problematiche ambientali. Oltre agli impatti temporanei (rumore, polveri, inquinamento, etc.), le pratiche d’estrazione possono produrre profonde e definitive modifiche del paesaggio, perdita irreversibile di suolo, fenomeni di inquinamento delle acque sotterranee e una serie di questioni relative alla destinazione d’uso delle aree dismesse.

E’ inoltre indubbio, come evidenziato dalle numerose inchieste svolte su gran parte del territorio nazionale, che tali attività abbiano stimolato e stimolino gli interessi della criminalità più o meno organizzata,già durante le fasi di esercizio – con abusivismo totale o con prelievi maggiori dell’autorizzato – e, soprattutto, nelle fasi post-operam, con l’utilizzo della cavità create per lo smaltimento a basso costo di rifiuti a vario grado di tossicità.

Senza entrare in questi aspetti, ci limiteremo qui a ricostruire il quadro generale della situazione italiana “ufficiale”,la quale presenta,essa stessa, molte zone di scarsa o confusa conoscenza, in buona parte derivanti da un apparato normativo frammentato e disomogeneo.

 

La legislazione vigente
La normativa nazionale di riferimento per le attività estrattive è ancora oggi costituita dal Regio Decreto 29 luglio 1927, n. 1443, “Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione nelle miniere del Regno”, che, indirizzato verso la massimizzazione della produzione, regola la ricerca e la coltivazione di sostanze minerali e delle energie del sottosuolo, industrialmente utilizzabili. Il RD, all’art. 2, suddivide le attività, sulla base della tipologia di materiale e indipendentemente dalla modalità di estrazione (sotterranea o cielo aperto), in quelle di prima categoria (miniere) e in quelle di seconda categoria (cave).

 

Le Cave: il trasferimento alle regioni
In ottemperanza ai dettami costituzionali (Art. 117 e 118 del Titolo V allora vigente), con i DPR 2/1972 e 616/1977 le competenze relative alla gestione di cave e torbiere sono state trasferite alle regioni. Sia pur in tempi diversi (tra il 1978 e il 2009) tutte le regioni hanno legiferato in materia demandando la pianificazione dell’attività estrattiva di cava alla regione stessa e/o alla provincia mediante la redazione di Piani regionali (o provinciali) dell’attività estrattiva (PRAE o PPAE) che, quando attuati, hanno sicuramente contribuito a razionalizzare il settore e limitarne gli impatti ambientali.

Tali piani - in alcune regioni non ancora approvati o adottati - oltre a censire le cave in esercizio o dismesse, contengono prescrizioni circa l’individuazione e la delimitazione delle aree (ambiti territoriali interessati da vincoli, anche in forza delle leggi 1497/1939, 431/1985 e 221/1990), le stime dei fabbisogni, le modalità di coltivazione, i tempi di escavazione. In tutte le regioni la domanda di autorizzazione alla escavazione deve contenere il piano di recupero, a carico del proponente, della cava al termine dell’attività.

In assenza di un moderno apparato normativo di cornice e di indirizzo nazionale della attività, più adeguato del RD 1443, la frammentazione della normativa a livello regionale, insieme ai meriti di cui sopra, ha determinato sistemi di pianificazione, autorizzazione e controllo diversificati e sistemi di raccolta e gestione delle informazioni fortemente eterogenei. Ciò rende particolarmente difficile ed oneroso la realizzazione di un quadro nazionale omogeneo.

 

Ma quante sono le cave in esercizio in Italia?
L’estrazione di materiali da cava è una attività fortemente variabile nel tempo, dipendente non solo dai quantitativi di risorsa estraibile, ma soprattutto dalla variabilità dei mercati. Per poter fare analisi attendibili è quindi necessario disporre dei dati il più possibile recenti. Nonostante tutti gli uffici regionali competenti in materia abbiano ormai a disposizione banche dati sulle attività di cava, una precisa definizione delle cave realmente in attività risulta ancora estremamente complicata.

La terminologia adottata per classificare i materiali estratti è piuttosto eterogenea, con indicazioni che talvolta risentono della categoria merceologica di riferimento (es. materiali per usi industriali, ornamentali, civili, ecc.), in altri casi delle caratteristiche litotecniche e/o genetiche (materiali alluvionali, pietrisco, calcare fratturato, ecc.) o anche semplicemente di denominazioni locali (Pietra leccese, Perlato di Bisceglie ecc.).

In diversi casi non è possibile discernere l’area autorizzata all’escavazione da quella realmente cavata nell’anno in corso e non sempre è possibile distinguere le cave autorizzate ed in effettiva attività da quelle temporaneamente sospese o da quelle non produttive. Mancano i dati sulle cave abusive e non sempre sono riportati i dati relativi alle “cave di prestito”, cave cioè che possono essere aperte in deroga alla pianificazione regionale per la realizzazione di opere di “interesse nazionale” (ferrovie, autostrade ecc.). Infine, ma più importante, i dati regionali disponibili non risultano aggiornati con la stessa continuità e affidabilità.

Tutte queste limitazioni si riflettono nella pubblicazione, da parte di chi ha provato a fare un quadro nazionale, di numeri piuttosto diversi tra loro. Secondo ISPRA (2014) le cave in attività, al 2012, sono 4827, mentre ne risultano 5.592a Legambiente (2014),che però non precisa l’anno di riferimento.

Interessante notare che, secondo ISPRA, il totale nazionale delle cave attive è probabilmente inferiore a quello sopra riportato, proprio per la citata difficoltà, per alcune regioni, di riuscire discernere le cave autorizzate da quelle realmente in produzione nell’anno di riferimento. Si tenga infatti presente che il censimento annuale della attività e della produzione avviene tramite comunicazione dell’impresa e solo alcune regioni dispongono di un reale ed efficace sistema di controllo sul territorio anche tramite l’utilizzo del Corpo Forestale e dell’ARPA locale.

Al di là delle differenze numeriche, del tutto normali in mancanza di fonti certe ed univoche, i dati sono concordi nell’evidenziare come più del 60% delle cave in attività sia rappresentato dall’estrazione di materiali per costruzioni e opere civili (sabbie e ghiaie, calcari, inerti vari. Figura 1).

Figura 1: Percentuale di cave attive per tipologia di materiale estratto
Fonte: ISPRA (2014)
 

Le regioni con il maggior numero di cave attive sul proprio territorio (figura 2) risultano la Lombardia ed il Piemonte, dove l’attività estrattiva riguarda soprattutto materiale alluvionale (sabbie e ghiaie, argilla e limo), il Veneto e la Sicilia, dove è particolarmente sviluppata l’estrazione di rocce carbonatiche (calcari, marne e gessi), la Puglia, con assoluta predominanza di estrazione di calcari, e la Toscana, che presenta il maggior numero di cave di rocce metamorfiche dovuto ai numerosi insediamenti estrattivi del settore apuano.

Figura 2: Cave in attività per regione
Fonte: ISPRA (2014)

 

La produzione di cava
La produzione totale nazionale si attesta a circa 217 milioni di tonnellate (ISPRA, 2014), valore comunque ritenuto con tutta probabilità sottostimato. Tale dato deriva, infatti, dalla sommatoria delle produzioni comunicate agli enti preposti (comuni, provincie, regioni a seconda della legge Regionale) dai gestori delle singole attività. Questi ultimi non sempre ottemperano all’obbligo di comunicazione dei dati relativi alla statistica mineraria e non in tutte le regioni viene svolta una capillare azione di controllo. Il grado di completezza e di attendibilità dell’informazione è pertanto variabile da regione a regione. Tra le regioni in cui, come detto, l’attività è più intensa, risulta che da Lombardia, Piemonte e Veneto proviene più del 75% della produzione nazionale di ghiaie/sabbie (circa 78 milioni di tonnellate);in Puglia e Sicilia predomina l’estrazione di rocce calcaree (circa 90 milioni di tonnellate a livello nazionale).

Alcune regioni (es. Marche, Umbria, Valle d’Aosta, Toscana) hanno pubblicato rapporti sull’evoluzione dell’attività estrattiva che denotano negli ultimi anni un pressoché costante calo della produzione,sostanzialmente collegato all’attuale congiuntura di mercato condizionata dalla crisi economica, in particolare per quanto riguarda i materiali per costruzione. Meno influenzato dalla crisi appare il settore delle pietre ornamentali,che gode ancora di gran prestigio nei mercati esteri, anche se si trova a dover fronteggiare la competizione crescente delle produzioni asiatiche a basso costo. 

 

I canoni di concessione
L’apertura di una nuova cava avviene in genere a fronte di un’autorizzazione rilasciata dal comune territorialmente competente (in alcuni casi è la regione o la provincia), con richiesta di pagamento di un canone da parte del cavatore interessato alla coltivazione. In Italia le tariffe richieste alle società di estrazione variano da regione a regione e nella maggior parte dei casi vengono differenziate in base al tipo di materiale estratto. I prezzi richiesti al metro cubo sono di solito molto bassi rispetto a quelli del prodotto finito: per gli inerti mediamente si paga il 3,5% del valore commerciale, con situazioni differenti tra regioni, sino al caso di Basilicata e Sardegna dove l’attività di escavazione è gratuita. Anche per gli altri materiali la situazione è variegata, con canoni comunque molto bassi perfino per materiali di pregio; ciò rende l’Italia un paese con i canoni di concessione tra i più bassi in Europa (nel Regno Unito il canone per scavare è pari al 20% del prezzo di vendita del materiale). Un eventuale allineamento con i canoni europei potrebbe incoraggiare anche in Italia il riutilizzo dei materiali provenienti dall’edilizia: il riciclaggio degli inerti in Nord Europa è quasi sempre superiore all’80% mentre in Italia non raggiunge il 10%.

 

Tante le cave cessate, ma quante devono essere recuperate?
Le differenze interregionali e le difficoltà nel reperimento dati si amplificano quando si cerca di definire la situazione delle cave che hanno definitivamente cessato l’attività.

A fronte di regioni che hanno condotto un capillare censimento sul territorio e/o amministrativo (scadenze-rinnovi delle autorizzazioni),altre hanno a disposizione dati solo a partire dall’entrata in vigore della Legge Regionale in materia; altre ancora solo il dato delle attività cessate nell’anno in corso. Ciò determina una differenza di circa il 7% tra i dati nazionali (14968 per ISPRA, 16045 per Legambiente) ma soprattutto rende poco confrontabili i dati anche di regioni limitrofe.

Secondo ISPRA, ad esempio, le 224 cave cessate del Piemonte sono riferite solo al periodo 1982-2012 e solo alla cave di monte, poiché quelle di pianura sono ritenute tutte recuperate, mentre il dato della Lombardia (2.896 cave) include tutte quelle cessate/dismesse/abbandonate, indipendentemente dall’anno di chiusura e dallo stato attuale delle aree. Il dato comprende quindi anche la cave recuperate, spontaneamente rinaturalizzate o inglobate all’interno delle strutture urbane. Analogamente i dati della provincia di Trento (1.100 secondo il censimento della Guardia Forestale) e della Puglia (2.531) comprendono qualsiasi attività di escavazione, anche poco significativa, verificatasi prima dell’adozione della legislazione che obbliga il recupero al termine dell’attività. Da sottolineare inoltre, che dal solo censimento amministrativo sfuggono, ovviamente, le escavazioni abusive. Utilizzando per tutte le regioni un criterio uniforme di censimento sul territorio, il dato nazionale relativo alle attività concluse risulterebbe sicuramente maggiore di quanto attualmente conosciuto, ma di queste quante ne sono state già recuperate, anche a seguito degli obblighi previsti a carico degli esercenti dalle leggi regionali, e quante delle restanti necessitano realmente di un ripristino ambientale?

Sicuramente il recupero dell’area è indispensabile nel caso di accertate problematiche di inquinamento, dovuto anche alla destinazione d’uso a termine dell’estrazione (es. discarica non controllata), nel caso di problemi di stabilità dei fronti di scavo in aree frequentate o per riqualificare il contesto paesaggistico. Ma negli altri casi? Buona parte delle cave di monte saranno ormai inglobate nel contesto territoriale locale, a volte andando a costituire dei veri geositi (cioè siti di importanza geologica tale da dover essere preservati), altre sono state naturalmente rivegetate tanto da essere non più visibili, molte ospitano laghi, sede di nuovi habitat e potenzialmente utilizzabili anche come riserva irrigua o laminazione delle piene ecc.

Dal punto di vista della protezione ambientale il dato complessivo delle attività cessate ha, pertanto, una importanza relativa mentre sarebbe certamente più significativo poter disporre di informazioni sullo stato attuale delle singole cave. Un’analisi di questo tipo, condotta dai relativi uffici regionali di Umbria e Marche,ha portato a individuare 75 cave da ripristinare su 392 cessate nella prima regione, e 550 (delle quali molte con interventi modesti) su 1.128 nella seconda.

Cave cessate per regione/provincia autonoma (Fonte: modificato da ISPRA, 2014)

Regione/Provincia autonoma

Anno di riferimentoa

Cave cessate

n.

Piemonteb

solo 1980-2012

224

Valle D'Aosta

nd-2012

20

Lombardiai

2012

2896

Bolzano-Bozen

2012

309

Trentoc

2012

1100

Veneto

2012

1325

Friuli Venezia Giulia

solo 2012-13

3

Liguria

2012

380

Emilia Romagna

solo 1985-2013

149

Toscanad

vari anni

1208

Umbriae

2012

75

Marchee

2012

550

Laziof

2009

475

Abruzzo

2013

485

Molise

2006

541

Campaniag

2003

1516

Pugliah

2013

2531

Basilicata

solo 1979-2012

155

Calabria

nd-2012

49

Sicilia

solo 2008-2013

117

Sardegna

2007

860

ITALIA

 

14968

 

 

 

aSe non diversamente specificato si intende l'anno di esecuzione del censimento sul territorio delle attività dismesse

bIl dato non tiene conto delle cave di ghiaia e sabbia poiché ritenute tutte recuperate

cIl dato si riferisce al censimento delle attività pre Legge Prov. del 4/3/1980 n°6 ed è sovrastimato per la sovrapposizione negli stessi siti, di più denunce d'esercizio. Post LP n°6 tutte le cave chiuse sono state oggetto di recupero ambientale

dSolo PAEP provincie di FI (2010), LI (2011), PO (2007), GR (2009)

esolo cave che necessitano di interventi di recupero ambientale

fnella relazione PRAE sono citate anche 2732 siti storici di cava, molte delle quali coperte dall'espansione urbana o rinaturalizzate

gIl dato comprende anche 180 cave abusive

hcave che hanno ultimato la loro attività di coltivazione prima dell'entrata in vigore della LR 37/85 che sancisce l'obbligo del ripristino. Diverse di queste sono ritenute da recuperare

iIl dato tiene conto di censimenti effettuati dalle Province, usando ogni tipo di fonte disponibile, e include tutte le cave cessate/dismesse/abbandonate presenti in Lombardia, indipendentemente dall'anno di chiusura e dallo stato attuale delle aree.

 

In conclusione
Da quanto sopra esposto emerge una situazione nel complesso piuttosto differenziata tra le regioni e figlia di un decentramento amministrativo slegato da una normativa nazionale di indirizzo. Poiché la protezione dell’ambiente è materia di competenza statale, sarebbe importante una nuova Legge Mineraria Nazionale orientata verso la sostenibilità ambientale dell’attività di cava, condivisa con le Regioni ed elaborata sulla base delle legislazioni regionali, le quali hanno spesso avuto il merito di mitigare/limitare l’impatto ambientale, talora devastante, delle attività estrattive. Al contempo sarebbe necessaria una decisa lotta alla attività illegali, prima fonte dei disastri ambientali legati alle escavazioni, e a chi queste attività illegali in qualche modo protegge (difficile nascondere una cava …).

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