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ALLARMISMI E BIODIVERSITÀ

È Vero Che Abbiamo Perso l’80% degli Insetti in 30 Anni?

Scritto il .

di: Enzo Moretto*
“L’allarme da uno studio tedesco diffuso in tutto il mondo: in trent’anni abbiamo perso l’80% degli insetti e con loro 400 milioni di uccelli per mancanza di cibo”. La notizia, in fondo al TG1 della sera, ci fa sobbalzare e ci manda per traverso la cena. Se fosse vera, meriterebbe i titoli di testa…. Abbiamo chiesto a Enzo Moretto, entomologo e naturalista, direttore di Esapolis e Butterfly Arc di chiarire la situazione, che è davvero allarmante e non ha alcun bisogno di essere “pompata” in modo allarmista.


Nelle scorse settimane, i media internazionali hanno dato evidenza ad un recente articolo pubblicato da australiani sulla rivista Biological Conservation dal titolo “Worldwide decline of the entomofauna: A review of its drivers” (Sánchez-Bayoa F., Wyckhuysbcd K. A.G. 2019) che, sulla base di ricerche pubblicate in questi ultimi anni in letteratura scientifica, afferma: “Il 40% delle specie di insetti sono minacciate di estinzione”. I media hanno poi “accentuato” la notizia, citando alcune ricerche commentate nel lavoro degli australiani dove si parla di una riduzione della biomassa totale degli insetti dell’ordine dell’80%.

La pubblicazione, in realtà, asseconda quello che già intuiamo, che sta già avvenendo, o che è già avvenuto, ovvero una drammatica perdita di biodiversità. Il suo merito sta nel fare una rassegna evidenziando una certa mole di dati, tutti già da tempo disponibili in letteratura scientifica. Si tratta, infatti, di una meta-analisi, ovvero una ricerca fatta su altre pubblicazioni. Pubblicazioni, certamente di qualità e competenza, che richiedono tuttavia molte riflessioni e prudenza nell’interpretazione e da cui non è facile trarre conclusioni categoriche. È evidente che gli autori hanno cercato visibilità e non c’è dubbio che ci siano riusciti.

La loro profezia pone comunque un tema che trova molti di noi già convinti del fatto che, se continuiamo su questa strada, l’estinzione, non solo degli insetti, sarà l’inevitabile conseguenza del degrado prodotto da fattori antropici. Possiamo però chiederci se questa ricerca fa affermazioni attendibili, ovvero se è corretto trarre deduzioni su dati che hanno notevoli criticità nel metodo e nelle conclusioni.

Per dare a chi legge una migliore capacità di valutazione, va detto che in questo tipo di pubblicazioni ci sono “ragioni editoriali” evidenti, un tema che la comunità scientifica dovrà affrontare prima o poi per non perdere di credibilità e qualità. Sappiamo che, spesso, i ricercatori si prestano a soddisfare le esigenze di visibilità e commerciali di chi gestisce la rivista per favorire l’accettazione del loro lavoro. L'editore d’altra parte, se il lavoro è vendibile e sta in piedi, tende a chiudere un occhio durante il processo di revisione. Ci sono alcune riviste in cui si pubblica pagando. Ci sono, inoltre, forti dubbi sulle meta-analisi che sono soggette a una forte parzialità di giudizio. Per dirla tutta, è la stessa letteratura scientifica ad evidenziare come la popolarità di un argomento porti ad un aumento delle “manipolazioni”. Tutti questi fattori possono influire sulla attendibilità di una pubblicazione (Caplan A.L. 2016; Fanelli D. 2009; Hausmann L. and Murphy S.P. 2016, Sutton A.J. et al. 2000).

Conclusioni a parte, l’articolo analizzato offre l’opportunità di un discreto panorama sugli aspetti della conservazione degli insetti e sulle cause che ne modificano o ne mettono in pericolo alcune popolazioni.

Una delle pubblicazioni citate nell’articolo, quella che ha fatto scalpore perché stima una perdita ddell’80% di biomassa di insetti in aree apparentemente non disturbate e protette in Germania, mostra notevoli limiti di metodo (Shortall et al.2009). In pratica, si voleva verificare quella che è una sensazione che hanno molti di noi, ovvero che ci siano sempre meno moscerini spiaccicati sul parabrezza delle auto. Gli autori hanno recuperato dati storici degli insetti che volano a circa un metro di altezza nelle aree protette investigate, salvo che le modalità di campionamento utilizzate non vengono normalmente considerate per analisi quantitative, ma solo per segnalare la presenza di specie che, poche o tante, rappresentano un indice di biodiversità se messe in relazione con l’habitat di campionamento. Per farlo, hanno utilizzato i dati raccolti con delle “trappole Malaise, le stesse utilizzate nel metodo Syrph the Net (StN) per determinare la biodiversità negli ecosistemi terrestri in Europa (Speight M.C.D., 2012; Speight M.C.D., 2016). Questo metodo utilizza i ditteri sirfidi. Per chi non li conosce, si tratta di insetti, appartenenti alla stessa famiglia delle mosche, che spesso imitano colori e disegni di api e vespe per difendersi e che, allo stato larvale, colonizzano diversi habitat e sono collegati a un gran numero di organismi che predano, come afidi e formiche. I sirfidi sono dei buoni bioindicatori (Landres P. B., Verner J., Thomas J. V., 1988; Brandmayr P., Pizzolotto R. 2015, Burgio G., Sommaggio D., Birtele D., 2015; Corazza C. et al. 2013) in quanto è possibile utilizzarli per dare un valore alla biodiversità degli habitat presenti in una specifica area. In pratica, se abbiamo un determinato habitat, un prato, bosco o zona umida, in base al numero di specie di sirfidi rinvenute si conosce la sua biodiversità, ma non si deduce la biomassa, in quanto sarebbe troppo azzardato a causa dell’alto numero di variabili ”(Evans A., 2016; Sommaggio D., Paoletti M. G., 2018). Questa ed altre metodologie utilizzate, rendono inadatto il lavoro dei tedeschi a tirare conclusioni su una possibile minaccia di perdita quantitativa di forme di vita. Il lavoro, come anche messo in evidenza nell’articolo degli australiani, non spiega come siano possibili fluttuazioni dell’80% inter-annuali e accusa genericamente i pesticidi sistemici del calo riscontrato, senza però documentarlo.

Nell’articolo australiano, si afferma che i gruppi maggiormente a rischio, in base alle analisi delle pubblicazioni scientifiche, sono gli scarabei stercorari, gli imenotteri (es. vespe, api e formiche), e i lepidotteri (es. farfalle e falene). Anche questa affermazione risente di un vizio di fondo: infatti questi sono i gruppi più studiati per i quali, però, non si fornisce una analisi quantitativa. Inoltre, mancano dati su interi gruppi che sono tra i più rappresentativi, come i ditteri e, fra i lepidotteri, i microlepidotteri e tutte le specie di piccole dimensioni, la maggioranza, ma meno appariscenti. Come può essere rappresentativa un’analisi se gruppi importanti di insetti ne sono esclusi? Si nota anche come il tema della conservazione si concentri troppo su specie appariscenti ed empatiche.

L’organismo più accreditato per la catalogazione dello stato di conservazione dei viventi, che sembra anche più smarcato da logiche faziose, è lo IUCN (International Union for Conservation of Nature), ma i suoi data base non danno stime quantitative. Inoltre, presenta grande carenza di dati per valutare lo stato di conservazione degli insetti in generale.

È fuorviante considerare alcune specie come indicatori dello stato di salute globale. Prendiamo i bombi: si è visto che il cambio di attività antropica, come alcuni tipi di rotazioni colturali, ha portato a una grande riduzione per alcune specie che erano legate alle fioriture delle piante coltivate, mentre ne ha favorito altre (Biesmeijer et al. 2006). Fa riflettere che questo fatto venga interpretato come negativo: lo è veramente? Altre specie di insetti addomesticati dall’uomo, anche se sono di grande valore e capaci di segnalarci un problema, non hanno un valore assoluto. Mi riferisco principalmente alle api domestiche o al baco da seta che, proprio perché sono state assoggettate ad una selezione da parte dell’uomo per adattarle ai suoi scopi, hanno subito un impoverimento genetico e, per questo, sono molto più suscettibili ai cambiamenti in atto.

Tengo a dire che su questo tema sono molto sensibile (M.Signorino e E.Moretto, 1991) e sono stato tra i primi che hanno denunciato, anche pubblicando, la pericolosità ecologica di un insetticida, il fenoxycarb, in quanto produceva morie negli allevamenti di bachi da seta anche a grande distanza dalle zone trattate perché agiva a dosi molecolari (Cappellozza L., Miotto F., Moretto E. 1990). All’epoca, ricordo che feci dei test anche sulla Inachis io, o vanessa io o occhio di pavone, una specie di farfalla selvatica comune che, da bruco, si nutre di ortiche. Paragonando bruchi raccolti in aree incontaminate e aree potenzialmente contaminate da deriva del pesticida utilizzato a molte decine di chilometri di distanza già da qualche anno, trovai che questi ultimi avevano già sviluppato livelli di resistenza molte migliaia di volte superiori. Questo dà l’idea di quanto sia rapido lo sviluppo di forme di resistenza negli insetti, cosa ben nota in agricoltura, dove, malgrado l’impiego di insetticidi mirati, non si è estinto alcun parassita delle colture, semmai sono aumentati. Quando si iniziò a parlare della moria delle api in Europa, partecipai ad un gruppo internazionale indipendente, the International Task Force on Systemic Pesticides (Bijleveld van Lexmond M.B. et al. 2015) che raccoglieva dati dalla letteratura sugli effetti dei neonicotinoidi e fipronil sulle api e l’ecosistema in generale. Oggi, grazie anche a quel lavoro, questi insetticidi sono indicati come una concausa del declino delle api domestiche. In sintesi, non bisogna mai abbassare la guardia e non ci si può aspettare che non ci siano effetti anche sulle specie selvatiche. Ma non possiamo generalizzare senza dati seri (Van der Sluijs L.P. et al. 2015).

Tra i fattori che producono problemi alla biodiversità di un ecosistema vi è l’ingresso di specie aliene. In questo caso, il problema non è la riduzione della biomassa totale degli insetti, perché verrebbe garantita dagli invasori. Le specie aliene non sono esseri venuti da Marte, ma specie che vivono in altre aree geografiche, simili per condizioni di vita, ma lontane o comunque separate da barriere che, un tempo, erano difficili da superare. Oggi, possono contare sulla diffusione operata dall’uomo con l’intensificarsi e il velocizzarsi dei trasporti. Sono oltre 12 mila quelle già sbarcate in Europa e, per decenni e forse secoli, non cesserà l’arrivo di altri organismi alieni. Su questo, oggi, c’è un maggior interesse dei legislatori, con nuove regole e l’inasprimento di pene per chi favorisce o detiene specie invasive (Reg. UE N.  1143/2014 recante disposizioni volte a prevenire e gestire l’introduzione e la diffusione delle specie esotiche invasive). Il provvedimento, tuttavia, risulta abbastanza complesso e inefficace, perché di carattere prevalentemente repressivo. Inoltre, molte specie sono di difficile o impossibile eradicazione. Di fatto, l’ingresso di specie aliene continuerà ad avvenire in modo importante fintanto che non si esauriranno i potenziali invasori. Ricordo che, nella storia del pianeta, questo è sempre avvenuto, ma con tempi geologici e modalità differenti. Questo tema mette anche in evidenza come ci si possa trovare in una posizione di impasse rispetto alle azioni da intraprendere. Un esempio è il recente ingresso della cimice asiatica Halyomorpha alis che sta producendo danni ingenti in agricoltura dove, tra l’altro, ha indotto un ritorno all’uso massiccio di pesticidi. In passato, per fronteggiare in modo biologico il problema, si cercavano, più o meno ufficialmente, dei piccoli antagonisti naturali nel luogo di origine del nuovo parassita. In qualche modo, venivano poi introdotti e questo ha fatto la storia e il successo della lotta biologica. Naturalmente ci sono i pro e i contro: con gli antagonisti si introduceva un ulteriore elemento alieno di alterazione dell’ecosistema. Oggi questo non è più accettato e si finisce per adattarsi ai danni e alle conseguenze ecologiche dei pesticidi sulla vita selvatica, sull’economia, sull’ambiente e sulla salute. Come si vede, non è facile decidere cosa è giusto fare ed è difficile, se non impossibile, tornare indietro.

Sugli annunci di estinzioni di massa di lepidotteri (farfalle e falene), ho già espresso qualche anno fa le mie perplessità (Moretto E. 2013), dopo che molti media avevano diffuso uno studio che ne annunciava la riduzione drammatica. Qui non è in discussione il fatto che molte specie siano a rischio o in situazione critica nel loro habitat o la bontà delle azioni per tutelarle. Peraltro, si tratta spesso di specie che, da sempre, hanno habitat molto ristretti o che presentano popolazioni relitte, ovvero che un tempo erano molto diffuse e ora sono in regressione, come per esempio per i cambiamenti geoclimatici avvenuti con le glaciazioni (Habel J.C. and Hassman T. Editors. Various authors 2010. Menéndez R. 2007.; Signorino M. e Moretto E. 1993) o che presentano criticità su particolari aspetti etologici (Moretto E. 2010)

Uno degli studi più importanti sulle farfalle, citato dall’articolo australiano, è stato realizzato nelle Fiandre, in Belgio (Maes D., Van Dyck H. 2001). Si evidenzia l’estinzione di ben 19 specie di farfalle su 64 segnalate storicamente nell’area. Ma i toni drammatici sono fuori luogo. I dati riportati, infatti, sono molto disomogenei. La scomparsa, per molte delle specie, è cominciata decenni fa, nel corso dei vari cambiamenti introdotti dall’uomo per l’attività agricola, per la sua progressiva intensificazione o per l’urbanizzazione (Biesmeijer et al. 2006). Non, quindi, per cause meno chiare o meno dimostrabili come le onde elettromagnetiche, l’effetto serra o la deriva di pesticidi. Inoltre, c’è il problema delle fluttuazioni naturali delle specie. Ovviamente, non ci si può aspettare che una regione fortemente urbanizzata e coltivata non abbia subito forti riduzioni delle specie legate a particolari ambienti molto limitati e delicati: alcune delle specie elencate sono in crisi ovunque per la scomparsa degli habitat, come zone a dune sabbiose, a brughiera, a prato stabile e soprattutto zone umide.

Un'altra pubblicazione, quella della European Environment Agency, ha messo in evidenza come 8 specie su 17 di farfalle dei prati mostrino un declino negli ultimi 20 anni (European Environment Agency 2013, Van Swaay, C.A.M. 2003, Van Swaay C.A.M. 2014). Naturalmente anche questa ricerca è stata letta da molti media come “le farfalle in Europa sono a rischio di estinzione”. Se analizziamo cosa dice il report, invece, vediamo che la diminuzione è basata su uno studio di poche specie e che questa in gran parte è avvenuta non per mano dell’uomo. Al contrario, avviene per l’abbandono di pratiche agricole e per il ritorno della foresta, ovvero di comunità naturali. In pratica, quello che sta avvenendo anche in Italia, in aree montane.  Dobbiamo preoccuparci anche di questo? Questo tipo di allarmismi può favorire l’attenzione dell’opinione pubblica sulla conservazione ma, onestamente, è poco accettabile come metodo scientifico. 

Senza avallare le affermazioni allarmiste, ritengo necessario un forte impegno nelle giuste direzioni per evitare che l’impatto antropico causi danni irreparabili, ove non li abbia già causati. In particolare, sono le aree tropicali a subire le maggiori perdite di biomassa e biodiversità. Al contrario dei paesi sviluppati, queste dispongono di scarsi strumenti e risorse per migliorare il rapporto con l’ambiente, pur detenendo la gran parte del patrimonio biologico delle terre emerse. Ad oggi, per motivi demografici, culturali e di instabilità socio-politica, non sembrano in grado di invertire il processo di degrado. Inoltre, dobbiamo ricordarci che la popolazione sul pianeta a breve sarà di 9 miliardi e inquinamento, pesca e agricoltura avranno un sempre maggiore impatto sugli ecosistemi.  Per questo, considerando l’emergenza, non dobbiamo perdere la capacità di narrazioni equilibrate che possano aiutarci a fare le scelte giuste e ad investire le - troppo poche- risorse in educazione, conservazione e metodi per ridurre il nostro impatto.

In conclusione, ritengo che l’affermazione che “il 40% degli insetti è minacciato da estinzione” sia basata su dati non generalizzabili. Quello che è chiaro e ampiamente dimostrato è che un qualsiasi cambiamento nell’utilizzo del territorio, determina cambiamenti nelle quantità e qualità delle comunità selvatiche, ma non è detto che questo sia negativo. Solo quando c’è degrado e sfruttamento, c’è perdita di biodiversità ed è evidente che oggi questo sta avvenendo su scala planetaria più che in passato. Debbono essere prese importanti misure per invertire questa tendenza, prima fra tutte la maggiore tutela delle zone umide, dell’acqua in generale e di ambienti specifici, processo che è ampiamente in corso nella gran parte dei paesi considerati dagli studi citati che sono quelli più sviluppati e che, allo stesso tempo, detengono la quota minore di diversità biologica. In pratica, il set di dati su cui si basa l’affermazione allarmista è totalmente sbilanciato su ricerche fatte in Nord America e in Europa. L’Africa, il Sud America e Sud Est Asiatico, praticamente il cuore della biodiversità, non sono considerati. Il fatto è che i paesi tropicali mancano di studi importanti per misurare il declino degli insetti e hanno anche poche possibilità di controllare i fattori di distruzione e degrado degli ecosistemi e di sfruttamento del territorio.

Da una mole di dati, non sempre emerge chiarezza sulle cause delle riduzioni di biodiversità che, invece, dipende dal metodo e dalle interpretazioni. Affermare che c’è un forte pericolo di estinzione imminente, anche per gruppi con basse esigenze ecologiche, mi sembra un po’ azzardato, considerando che altre pubblicazioni autorevoli indicano il contrario. Proprio perché è un tema caldo e con forti ricadute sulle possibili scelte ambientali, le affermazioni che si fanno non dovrebbero essere sensazionalistiche, ma scientificamente supportate, per non perdere in credibilità.

Per questo, è importante investire sulla ricerca e nel lavoro di naturalisti ed entomologi, che negli ultimi anni è stato messo un po’ in secondo piano. Mi auguro che nuove ricerche e riflessioni potranno prendere spunto anche grazie alla rassegna esaminata e alle preoccupazioni, comunque lodevoli, che essa ha inteso suscitare.

* Entomologo-Naturalista direttore di Esapolis e Butterfly Arc

 

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