Tags: Energia, Clima, Strategie energetiche

DIBATTITO SUL PIANO ENERGIA E CLIMA

Cercasi Altre Strade per Tutelare il Clima

di: Alberto Cuppini*
L’autore, animatore del sito “Rete della Resistenza sui Crinali” che da anni si batte per salvaguardare i crinali appenninici dall’insediamento di pale eoliche, torna ad affrontare l’impostazione delle politiche europee ed italiane contro il cambiamento climatico sostenendo che esse si rivelano ad un tempo inefficaci per la tutela del clima globale e costose fuori misura per i cittadini italiani ed europei.


Il 22 giugno dello scorso anno, nell'appello rivolto al neo eletto Governo Conte per scongiurare la nuova ondata di incentivi alle fonti rinnovabili elettriche impattanti (in particolare all’eolico) e per cambiare la Strategia Energetica Nazionale, una coalizione di 11 associazioni ambientaliste scriveva: "La Strategia Energetica Nazionale si riduce così ad una strategia Elettrica nazionale dove appare ormai evidente che ci troviamo ad affrontare le spinte di alcune lobby che stanno cercando di imporre “una” soluzione come “la” soluzione del futuro, evitando che il dibattito e le analisi prendano in considerazione tutte le soluzioni possibili, scegliendo la migliore, la più conveniente e sostenibile per il Paese. La decarbonizzazione non passa infatti solo dall'elettrico, né tanto meno dall'eolico industriale, meno che mai in Italia."

L'appello è rimasto del tutto inascoltato dal nuovo Governo. L’impostazione generale della SEN di Gentiloni-Calenda è stata anzi riproposta nel recente Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC). 

Adesso, sia pure con ritardo, cominciano ad affiorare qua e là - ma rigorosamente mai sui maggiori organi di informazione italiani - i primi seri dubbi sull'efficacia delle politiche europee di contrasto al cambiamento climatico.

Ciò avviene mentre a Roma, davanti alla Commissione Attività Produttive della Camera, proseguono le audizioni per l'indagine conoscitiva sulle prospettive di attuazione e di adeguamento della SEN al PNIEC per il 2030. In quella sede, continua da mesi la sfilata surreale di tutti gli "stakeholder" che, senza alcun contrasto da parte degli sprovveduti commissari, chiedono, più o meno velatamente, finanziamenti a pioggia ed allentamenti dei regimi vincolistici per realizzare tutti i loro programmi con la massima celerità, rispettando così la scadenza del 2030 ("Rimangono solo pochi anni per salvare il pianeta!"). Finora non è stato audito, invece, nessuno di coloro che dovranno pagare il conto finale, la cui opinione, evidentemente, pare godere di scarsa rilevanza presso i rappresentanti del popolo.

E ancora, sempre a Roma, ma appena un paio di settimane fa, è stata avviata dal Governo, come già accaduto per la nuova SEN, la "pubblica consultazione" sulla bozza del PNIEC, che prevede 184 miliardi di euro di investimenti.

Il fatto stesso di avere annidato questo dato fondamentale  - 184 miliardi di euro - in basso a destra di un banale diagramma a pag. 232 del PNIEC, occultandolo in mezzo ad un testo sterminato, zeppo di irrilevanti o persino inutili minuzie, rappresenta un indizio rivelatore, peraltro inconscio, di quanto ai redattori del Piano possano importare i costi che la collettività nazionale dovrà sostenere per raggiungere gli obiettivi per il 2030.

In realtà saranno molti di più di 184 miliardi, considerando che, solo per incentivare la stessa quantità (circa 65 TWh all'anno) di produzione elettrica da nuove fonti rinnovabili che si vorrebbe incrementare per il 2030, sono già stati impegnati circa 230 miliardi. Ma - quel che è peggio - la cifra di 230 miliardi esclude, oltre alle enormi spese accessorie per le reti, il dispacciamento ed il bilanciamento del sistema elettrico, gli investimenti ora previsti in materia di riscaldamento e di trasporti che sono da prevedere schiaccianti per il 2030. 

E' dunque facile anticipare che la spesa totale potrebbe essere, a regime, addirittura il doppio dei previsti 184 miliardi, da aggiungere ai 230 precedenti già messi in conto, per raggiungere alla fine un impegno pro capite complessivo nell'ordine dei 10 mila euro, una cifra da capogiro che ciascun italiano, in media, dovrà sopportare, senza peraltro ottenere alcuna riduzione delle emissioni globali clima-alteranti, destinate ad aumentare a dismisura in tutto il resto del mondo tranne che in Europa.

A questo proposito, si pensi che lo scorso anno, nonostante l'eccezione dell’Europa (–1,3%), tutte le grandi economie hanno incrementato le proprie emissioni: la Cina del 2,5%, gli Stati Uniti del 3,1% e l’India addirittura del 4,8%. Una crescita economica da molti giudicata troppo debole per correggere gli squilibri commerciali e l'immane indebitamento globale è stata tuttavia sufficiente a provocare una crescita del 2,3% dei consumi energetici e, di conseguenza, del carbonio riversato in atmosfera.    

D’altra parte la "pubblica consultazione" appare un inutile pro forma, visto che, come riportato dal quotidiano Il Sole 24 ore, il sottosegretario al ministero per lo sviluppo economico Davide Crippa ha dichiarato che "si tratta di un obiettivo rivedibile solo al rialzo". Un caso di scuola della teoria dei gruppi di interesse, con la politica al servizio di interessi particolari quando i beneficiari sono in numero ridotto ma potenti e organizzati, mentre chi ne deve sopportare i costi e le altre conseguenze negative è frammentato (o inconsapevole o disinteressato) e incapace di chiedere protezione.

Tornando alle voci critiche, riportiamo di seguito qualche esempio significativo. Ci è parso particolarmente efficace - sul sito web della rivista Energia - l'articolo di Stefano Verde del 2 aprile, dal titolo "Perchè prendere l'energia dalla coda". "Piuttosto che sacrificare alcuni gradi di libertà a disposizione dei singoli Paesi attraverso target specifici, l’Unione europea avrebbe potuto fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni",  afferma Verde, che così argomenta: "Se l’obiettivo ultimo è la decarbonizzazione, la politica europea avrebbe potuto essere efficace anche se si fosse basata su un solo semplice target di riduzione delle emissioni... Invece i target introdotti da Bruxelles non si sono limitati a definire quale sia la necessità d’azione e l’obiettivo finale, ma disegnano anche una traccia delle traiettorie per arrivare alla destinazione finale (quante rinnovabili, quanta efficienza, in quali usi finali ricercare l’efficienza, …). E poiché ogni Paese ha la propria storia, la propria società, la propria base industriale, le proprie abitudini “one size does not fit all”. Quindi, nella costruzione delle strategie nazionali il dover rispettare obiettivi di secondo ordine potrà rendere meno efficace e meno tempestivo lo sforzo verso l’obiettivo primario, nonostante il fattore tempo sia una variabile importante nella lotta al cambiamento climatico".

Verde si domanda, tra l'altro, se le soluzioni indicate dal Governo siano le più convenienti per il Paese, le meno costose e le più accettabili dalla popolazione, ed in particolare se il settore residenziale ed il settore industriale siano pronti alle transizioni previste dal PNIEC.

Si tratta della riproposizione del concetto, da noi più volte espresso, di non affidarsi, per affrontare il problema, nè ai cavillosi regolamenti della Commissione europea ad egemonia tedesca nè, più a monte, al pensiero unico dell'integralismo ambientalista, che impedisce qualsiasi iniziativa che non sia quella ultra-ortodossa ispirata alla COP21 di Parigi.

Noi ci domandiamo anche fino a che punto gli italiani potranno sopportare gli scempi paesaggistici degli impianti ad energia rinnovabile ed i relativi costi in bolletta elettrica, oltre alla rinuncia, di fatto, all'uso delle automobili da parte del quartile meno abbiente della popolazione. Interesse nazionale, benessere della popolazione, profitti delle imprese non possono essere ignorati in nessun caso, pena la castrazione energetica della Nazione e la rivolta degli italiani.

Appare utile a questo proposito, se non altro per quantificare le dimensioni del problema, ricordare la conclusione del recente lavoro di Enrico Quintavalle, responsabile dell'ufficio studi Confartigianato.  Quintavalle sintetizza il disastro della scelta di affidarsi a iper-incentivate pale eoliche e pannelli fotovoltaici (che ricevono - e riceveranno almeno fino al 2031 - per ogni MWh di elettricità prodotta un incentivo pari ad un multiplo del suo prezzo di mercato all'ingrosso), che da sola spiega il perchè del gap nel mancato aumento di produttività del "sistema Italia" nell'ultimo decennio rispetto ai fantasmagorici progressi della concorrenza internazionale, in particolare quelli realizzati in Oriente, dove ci si disinteressa sfacciatamente degli aumenti delle emissioni clima-alteranti. Ecco le conclusioni di Quintavalle: 

"Va peraltro evidenziato che in media nel decennio lo spread elettrico è stato molto elevato, pari al 26%, determinando una pesante riduzione di competitività delle piccole imprese italiane, in particolare quelle manifatturiere, esposte alla concorrenza internazionale".

Sullo stesso argomento, ci va giù ancora più duro il Professor Alberto Clò, nell'articolo dell'8 febbraio su Energia, dal titolo "Prezzi dell'energia: la palla al piede dell'economia europea (specie italiana)": "E l’Italia? Nelle classifiche il nostro paese si piazza sempre nei primi posti nei livelli dei prezzi finali dell’elettricità e del metano. Addirittura primo tra i paesi del G20 (vedi diagramma sotto n.d.r.) in quelli dell’elettricità all’industria. Amaro primato e segno del fallimento della politica energetica nel voler ridurre il ‘gap di costo’ dell’energia (leggasi SEN 2013)".

Se con il PNIEC vogliamo ripeterci, raddoppiando il fardello sulle spalle della prossima generazione di italiani, per favorire le lobby, l'industria tedesca e la concorrenza asiatica, siamo sulla buona strada.

Facile individuare la responsabilità primaria del disastro nella miope politica neo-mercantilistica tedesca, frutto del pressapochismo culturale, prima ancora che politico, delle loro élite. Fortunatamente, i dubbi sull'efficacia di questa Klimapolitik si rafforzano anche in Germania. Citiamo a titolo di esempio l'articolo del Professor Thomas Mayer, economista dell'Università di Witten/Herdecke, sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 2 marzo, dal titolo: "Avanti con la tassa sulla CO2!".

Il Professor Mayer, come noi convinto della necessità, a monte, di una soluzione di mercato e come noi favorevole all'applicazione di una imposta pigouviana (che a nostro avviso dovrebbe sostituire progressivamente l'IVA e non aggiungersi ad essa), scrive: "La tassa dovrebbe essere prelevata quando i combustibili fossili entrano nel ciclo economico, cioè nella produzione nazionale o quando si attraversa la frontiera", aggiungendo che "la giungla delle sovvenzioni e dei regolamenti potrebbe essere liquidata".

Raccomandiamo a chi conosce il tedesco di leggere tutto l'articolo di Mayer, non solo per conoscere, sia pure a grandi linee, la sua proposta di carbon tax (per molti versi simile a quella della Imposta per le Emissioni Aggiunte sponsorizzata dagli Amici della Terra Italia, e che ancora necessita di migliori specificazioni), ma altresì per dimostrare, contro tutte le apparenze contrarie, che anche tra i tedeschi non è scomparso il senso dell' (auto) ironia. Così conclude il suo articolo Mayer: "Si potrebbe pensare che i nostri responsabili politici non abbiano mancato di notare che la loro politica contro il cambiamento climatico raggiunge risultati molto modesti a costi estremamente elevati. Il limite della resilienza dell'economia tedesca da parte di questa politica dovrebbe presto essere superato. Tuttavia, essi non mostrano alcuna propensione a correggere il corso intrapreso. Il motivo potrebbe essere che una potente lobby verde trae enormi vantaggi da questa politica e impedisce qualsiasi cambiamento. Spetterebbe agli elettori convincere i politici a mostrare a questa lobby il cartellino rosso e perseguire una politica migliore contro il cambiamento climatico".

In Germania il Professor Mayer non è certo una vox clamantis in deserto. Per citarne un'altra, si è espresso in modi critici, sempre sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, anche un autorevole rappresentante dell'Establishment tedesco come David Folkerts-Landau (il capo economista della Deutsche Bank, recentemente salito agli onori delle cronache italiane per avere difeso le ragioni dell'Italia nell'allentare le rigidità dei vincoli europei sul nostro deficit) nell'articolo del 18 marzo scorso "Klimaschutzpolitik auf dem Irrweg" (La politica di protezione del clima sulla strada sbagliata).

Restiamo in attesa che anche i loro omologhi italiani manifestino su questo argomento un'analoga indipendenza di giudizio, abbandonando il conformismo mainstream imperante in Italia ed un ottuso spirito gregario: ci rifiutiamo di credere che ci possa essere anche un solo economista o un esperto di energetica in buona fede che non si accorga delle assurdità in atto, che saranno amplificate dall'implementazione del PNIEC, destinato a diventare vincolante, come i lobbysti ben sanno, dopo il placet dell'UE. Nel frattempo ci assumiamo noi la responsabilità di affermare con nettezza quello che dovrebbe essere di loro competenza. Partiamo da due assunti:

1) Nonostante 24 anni di trattative climatiche, culminate negli accordi di Kyoto e di Parigi, le emissioni globali sono cresciute di oltre il 60% dal 1990 ad oggi. Il motivo di un simile disastro, oltre tutto pagato a carissimo prezzo dagli europei (e dagli italiani in particolare), è evidente, anche se taciuto a causa dell'asfissiante censura del politicamente corretto: gli obiettivi di riduzione delle emissioni stabiliti dalle Conferenze delle Parti (COP) non sono legalmente vincolanti. Tutto il resto del mondo emette quello che vuole, rovesciando poi le responsabilità dei fallimenti sul deprecato Occidente. Questa ipocrisia trasforma le COP in rituali terzomondisti sempre più stanchi e stereotipati, il cui fine ultimo non è la soluzione del problema ma la sua rimozione collettiva. 

2) Appare indispensabile cambiare l'Unione Europea per non accelerarne lo sfaldamento in atto. Il tema principale, oggi in Europa, è come salvare l'Unione da se stessa, da regole troppo stringenti, e in particolare, secondo noi, da quel misto di ordoliberismo e neomercantilismo che la sta soffocando.

La conseguenza logicamente necessaria di queste premesse scaturisce spontanea. Il primo segnale di un cambiamento di rotta dovrebbe riguardare il Clean Energy Package, ed in particolare l'occhiuto regolamento "Governance", che avrebbe suscitato l'ironia persino dei più tetragoni pianificatori sovietici e che legherà l'Italia ad un letto di Procuste fino al 2030 ed oltre. A questo dovrebbe inevitabilmente seguire un diverso approccio europeo verso le COP organizzate dall'Onu, pretendendo come condizione preliminare, prima di spendere un altro euro o di intraprendere nuove politiche restrittive, che tutti gli altri Paesi si conformino ai migliori standard europei di efficienza energetica.

 

*animatore del sito “Rete della Resistenza sui Crinali”

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