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COP 21 DI PARIGI

Il Mare dei Cambiamenti Climatici e il Secchiello Europeo

Scritto il .

di: Fabio Pistella e Leonello Serva
Pubblichiamo una nota introduttiva alla relazione “Il peculiare comportamento europeo nell'affrontare il cosiddetto riscaldamento globale e le emissioni di CO2” tenuta da Leonello Serva e Fabio Pistella alla “International Conference on Geoethics” lo scorso ottobre a Praga


Per il nostro pianeta i cambiamenti climatici non sono una novità. Ne abbiamo evidenza su scala geologica (non è difficile leggerle) e su scala storica (la Libia era il granaio della Roma imperiale, le carestie associate a mutamenti climatici punteggiano tragicamente la cosiddetta era cristiana). L’uomo se l’è cavata mutando le sue abitudini e avvalendosi della tecnologia che gli ha dato i mezzi per adattarsi alle nuove condizioni e per creare nuove risorse.

Negli ultimi decenni, paradossalmente proprio quando la tecnologia a disposizione è ben più possente, l’uomo ha subordinato la strategia dell’adattamento a quella della prevenzione. Aperto un dissidio prima scientifico poi ideologico su quali siano le cause, l’attenzione si è concentrata sull’emissione della CO2 in atmosfera e, da venticinque anni, è prevalsa la tesi che occorra ridurla per evitare il disastro. A molti sembrò che la svolta potesse avvenire col Protocollo di Kyoto (1997). Ma le emissioni di CO2 sono continuate a crescere (dai 21 miliardi di tonnellate del 1990 ai 32 miliardi del 2014) nonostante una serie di impegni roboanti ma per niente rispettati dei potenti della Terra.

Siamo alla 21esima edizione di Grandi Summit di questo tipo (COP 21, Parigi, dicembre 2015). Poiché USA e Cina si sono allineati al mantra delle promesse, gli impegni attuali sono più consistenti (limitare le emissioni a 35 miliardi nel 2030 contro i 39 che si raggiungerebbero in una dinamica inerziale), i costi associati sono stratosferici e mancano totalmente indicazioni su quando, come e dove le risorse saranno reperite; l’esperienza ci dice che difficilmente gli impegni saranno mantenuti e comunque i nuovi “oracoli” (i modelli IPCC) prevedono che anche se lo fossero non si scamperebbe dal livello di riscaldamento tanto temuto: per non correre questo rischio, probabilisticamente definito in modo piuttosto sibillino, le emissioni dovrebbero scendere a 25 miliardi di tonnellate al 2030. 

Particolarmente difficile comprendere la posizione dell’UE, che con un programma lacrime e sangue vuole dare il suo “decisivo” contributo: scendere dagli attuali 3,4 miliardi a 2,4. Un suicidio economico – se va bene, una drammatica automutilazione – per un contributo di 1 Gton a fronte di un mismatch di 10 Gtons. Anche studiosi qualificati si cullano nell’illusione dell’utilità di impegni unilaterali su base volontaria (INDC, Intended Nationally Determined Contribution). Eppure, già se ne sono fatti di danni all’economia europea per contenere a 3,4 miliardi le emissioni che nel 1990 erano a livello 4,0 miliardi. Chi ha esposto fin dal 2001 queste considerazioni non è stato ascoltato, anzi.

Che fare? Sarebbero utili quegli interventi che sono nella logica di un’utilità oggettiva, indipendentemente dall’ermeneutica sulla eziologia (per rimanere nel linguaggio IPCC): uso razionale dell’energia, fonti rinnovabili dove sono sostenibili e non si reggono solo su incentivi. Ovvio che gli interventi andrebbero fatti all’interno di una collaborazione internazionale là dove l’esigenza è più pressante.

A parità di spesa, è evidentemente più sensato spendere in Cina, dove la crescita è tumultuosa e i benefici sono molto maggiori, che rosicchiare contenimenti marginali nei paesi di Europa, come l’Italia, che già hanno elevata efficienza.

Altra linea d’azione: mettere in ordine il territorio sarà comunque utile (vediamo i fatti di casa nostra, risolvere la questione del Bisagno che disastra periodicamente Genova o quella delle zone del Beneventano, insieme a tante simili purtroppo). Su scala mondiale pensiamo a Saint Louis.

Se si scomodano i potenti della Terra, che ci diano, come da più parti invocato, un Piano Marshall di interventi concreti fattibili e certamente utili. Altrimenti non potranno non venirci in mente i Vertici sulla Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo: cinquant’anni di tante belle parole e pochi fatti concreti; comunque non abbastanza, come è sotto gli occhi di tutti. Le cosiddette ”migrazioni economiche” (brutto neologismo) ne sono una prova.

Almeno è ben chiara una cosa da non fare: non serve un’ennesima agenzia dell’ONU.

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