Tags: Europa, Sviluppo sostenibile, Clima

GREEN NEW DEAL

Il Turning Point dello Sviluppo Sostenibile

di: Stefano Venier*
La speranza è che il Green New Deal non si trasformi in uno slogan, una buzzword, usa e getta. Il programma della nuova Commissione europea può essere una opportunità se vi partecipiamo e se ci allineiamo alla traccia, capendo che la lotta ai cambiamenti climatici non si fa con un approccio command and control estemporaneo o attraverso soluzioni deindustrializzanti. La risposta ai temi può venire solo da innovazione e industria, responsabile. Molto c'è da inventare, parecchio da cambiare (progressivamente), tanto da recuperare e non buttare.


Di fronte alla deriva climatica, l’immagine della clessidra agli sgoccioli che accompagna i giovani di “Friday for future” sta producendo i suoi effetti sull’agenda pubblica: l’orizzonte di istituzioni, aziende, media e cittadini – in altre parole – è ormai stabilmente occupato da temi che fino a pochi anni fa riscuotevano un interesse del tutto residuale. L’adozione di strategie e azioni conseguenti, tuttavia, costituisce un compito ancora largamente inevaso, esponendoci allo spettro di una “transizione bendata”, che per ogni passo in avanti rischia di farne due indietro. Le piazze, le imprese, i Paesi e gli organismi sovranazionali, tutti variamente allertati dal tema del climate change, danno infatti l’impressione di convergere in modo troppo slegato, affidandosi a volte a un interventismo estemporaneo e a vari palliativi, senza una lucida regia che garantisca l’efficacia e l’armonizzazione dei singoli sforzi, la coerenza di un percorso logico.

Uno degli ostacoli, in questo senso, è dato dall’assenza di un lessico e di una grammatica condivisa, elementi che di ogni augurabile regia sono precondizioni fondamentali, necessarie – quantomeno – affinché tutti gli attori in gioco si intendano l’un l’altro sui termini della questione che si propongono di risolvere. Quando parliamo di sostenibilità, tanto per cominciare, non tutti si riferiscono alla stessa cosa. Parole-guida del nostro tempo, nate per orientarci nella lotta contro l’inquinamento ambientale, stanno cioè soffrendo – a loro volta – di un inquinamento specifico[1], che ne intacca e disperde il significato, a detrimento delle politiche che vi si ispirano.

È quello che accade, ad esempio, con la “decarbonizzazione”, il cui onere – senza fondate ragioni – viene frequentemente demandato al solo comparto energetico, dal quale in realtà dipende il 55% delle emissioni climalteranti. Il restante 45% si suddivide tra Industria e Allevamenti/Uso della terra, settori che al di là di qualche sporadica iniziativa risultano orfani di politiche capaci di costruire azioni in grado di assicurare quella riduzione delle emissioni che risulta indispensabile per costruire, entro il 2050[2], una vera carbon neutrality. Tra queste azioni vi sono certamente quelle per l’efficienza energetica, sulla quale non sarebbe necessario inventarsi alcunché: proprio l’Italia, infatti, vanta la migliore esperienza europea di applicazione dei cosiddetti “permessi negoziabili”, i “Certificati Bianchi[3]”, ossia lo strumento che ha dimostrato di avere il miglior rapporto costo/efficacia per abbattere le emissioni. Il corretto funzionamento dei Certificati Bianchi, però, deve essere rilanciato con rapidità, per non disperdere quel residuo patrimonio di fiducia e di impegno che nella precedente fase era stato virtuosamente costruito.

Il cahier de doléances si estende poi all’ “economia circolare”: spesso e inopinatamente ridotta a una questione per i rifiuti, essa designa invece un approccio che investe tutta la catena del valore di ciascun settore, e deve perciò potersi applicare in maniera trasversale a ogni filiera produttiva e di servizio, comportando un progressivo ridisegno del nostro modello di sviluppo. La questione è decisiva perché in un mondo sempre più “pieno” (per non dire “saturo”), un’economia circolare che non proceda anzitutto dall’ecodesign, dall’allungamento del ciclo di vita dei beni, dal riuso e dalla rigenerazione delle risorse naturali, in primis l’acqua, continuerà a mancare dell’abbrivio necessario a spiccare il volo, rischiando anzi di implodere. In un quadro del genere, caratterizzato dalla necessità di essere efficaci e – insieme – contenere i costi, gli approcci più dirigisti, del tipo “command and control”, mancano l’obiettivo, mentre è ampiamente dimostrata l’opportunità di politiche basate su meccanismi di mercato (tasse sulle esternalità negative, incentivi e, di nuovo, permessi negoziabili). La corretta classificazione dell’“end of waste”, la promozione della ricerca di nuove soluzioni tecnologiche e applicative a livello industriale, il varo di politiche di incentivazione con approcci nuovi – lontani dagli strumenti una tantum del passato – sono tutte condizioni essenziali.

I capitoli su cui fare chiarezza, del resto, non finiscono qui e, fra i tanti possibili abbagli, uno dei più pericolosi riguarda le previsioni sui saldi occupazionali della cosiddetta “green economy”, nei confronti della quale la voce dei più ottusi detrattori si alterna ad atteggiamenti diametralmente opposti, di segno quasi fideistico, che trascurano la necessità di governare la transizione e, soprattutto, di progettare i sistemi di mitigazione. Come sostiene Fabrizio Barca, ex Presidente del Comitato per le politiche territoriali dell’OCSE, occorre “costruire proposte che soddisfino entrambi gli obiettivi: la giustizia sociale e quella ambientale”[4]. D’altronde, se il successo della transizione dipende dal consenso e dal coinvolgimento che essa saprà catalizzare – a tutti i livelli – attorno ai propri obiettivi, chi pensasse di poterla affrontare senza progressività e senza meccanismi di compensazione è destinato a non superare la metà del guado che ha di fronte.

Questi brevi cenni, ovviamente, non esauriscono lo spettro dei problemi, ma possono già suggerirci la prospettiva costitutivamente sistemica in cui occorre collocare le questioni collegate al climate change. Come scrive l’Economist[5], infatti, non stiamo parlando di un problema ambientale fra gli altri, risolvibile con la buona volontà di alcuni e/o in poco tempo, bensì di una sfida che 1) esige il concorso di tutti, 2) dev’essere intrapresa subito e 3) non si esaurirà nel giro di pochi anni. Ai governi, continua l’Economist, spetta il compito di affrontarla in maniera organica: “decarbonizzare un’economia – si legge non a caso nel testo introduttivo del settimanale – non è una semplice sottrazione, ma comporta una revisione quasi completa” dei fondamentali della nostra economia.

Temi di questa portata interrogano in modo particolare l’Italia, che in Europa occupa una delle aree più esposte agli effetti del climate change, soffrendo al contempo di storiche e persistenti fragilità strutturali, che complicano la situazione. Basti pensare al settore idrico: mentre la FAO prevede che tra il 2010 e il 2050 la domanda globale di acqua dolce crescerà del 55%, l’Italia – già oggi – evidenzia prelievi di acqua a uso potabile pari a 428 litri al giorno per abitante, un valore che secondo Istat è il più alto in Unione Europea, lontano dunque dagli obiettivi di consumo responsabile che dobbiamo porci per un bene comune così essenziale. Il 10% della nostra popolazione, secondo Ispra, è inoltre a rischio alluvioni, senza contare che i fenomeni delle “bombe d’acqua” che mettono in crisi i sistemi fognari (dove presenti) sono sempre più frequenti. Per rispondere agli effetti dei cambiamenti climatici, il ciclo idrico necessita di imprese con forti competenze e dimensioni solide, per progettare, realizzare e sviluppare un sistema resiliente e rigenerativo, target non supportato da un dibattito che, invece, sembra riaccendersi su vecchie questioni legate alla natura societaria dei gestori. Non stupisce, dunque, che dal Rapporto 2019 dell’ASviS[6] emerga il ritratto di un Paese un po’ in chiaroscuro: rispetto agli SDGs, l’Italia progredisce in alcune aree e peggiora in altre, con flessioni che riguardano purtroppo indicatori imprescindibili: povertà, alimentazione e agricoltura sostenibili, strutture igienico–sanitarie, sistema energetico, condizione dei mari ed ecosistemi terrestri.

Non mancano, tuttavia, anche gli elementi incoraggianti, su cui occorre fare leva per andare nella giusta direzione. Come rendicontato nel recente Rapporto Nazionale sull’Economia Circolare[7], ad esempio, l’Italia figura al primo posto in Europa per indice complessivo di circolarità[8], dando prova di competenze e performance che chiedono tuttavia di essere messe a sistema e di trovare un contesto chiaro, certo, coerente nel tempo e nel territorio, per trovare la spinta a un ulteriore sviluppo. Ancora, molte delle città italiane hanno assunto un ruolo diretto all’interno delle diverse call to action, adottando un’Agenda di sviluppo sostenibile che a livello centrale dovrebbe essere corrisposta da sostegno e attenzione, nonché da quel lessico condiviso di cui si è detto all’inizio, anche al fine di superare il classico percorso a “due velocità” che caratterizza da lungo tempo la storia del Paese.

Le condizioni di contesto affinché un rilancio si verifichi, del resto, sembrano molto favorevoli, considerando che l’Unione Europea va nella stessa direzione e, con l’insediamento di Ursula von der Leyen alla Presidenza della Commissione, è già in corso la stesura di un Green New Deal particolarmente ambizioso, che si propone di raggiungere la “neutralità climatica” del Continente entro il 2050. Il piano, la cui presentazione dovrebbe avvenire entro i primi 100 giorni di mandato della nuova Commissione – o forse, più probabilmente, all’inizio del 2020 – si annuncia non soltanto molto articolato ma anche mirato a individuare, per ogni campo, i termini precisi delle azioni da intraprendere per conseguire gli obiettivi attesi, superando le semplificazioni cui abbiamo accennato e ponendo così le basi strategiche di un percorso progressivo, che coniughi ambiente, sviluppo e inclusione sociale. Si tratta di un’opportunità senza precedenti, a cui il nostro Paese dovrebbe guardare con partecipazione attiva e con la necessaria visione di lungo termine, allineando prospettiva industriale, politiche di intervento e obiettivi.

Ad esempio, nel decidere l’incremento dei target di riduzione delle emissioni di CO2, il Green Deal europeo si propone di effettuare un’analisi dei relativi impatti sociali ed economici, evidenziando così uno sguardo lungo che riduce l’eventualità di una crisi di rigetto, la cui probabilità aumenta invece in maniera esponenziale laddove ci si affidi alle cosiddette “azioni d’urto”, spesso legate alla sola introduzione di nuovi vincoli e/o divieti. Correttamente, a questo proposito, si sta ragionando attorno all’istituzione di fondi dedicati al progetto di una “transizione equa”, che accompagni le fasce, le industrie e le regioni più esposte, senza pregiudicarne le chances di sviluppo. A livello comunitario, più in generale, sembra consolidarsi una stagione programmatica in cui la cultura della “progressività” si candida a sostituire quella degli “shock” caratteristica del neoliberismo degli ultimi trent’anni, riportandoci al motto leibniziano per cui “natura non facit saltus”.

È altrettanto matura, in questo senso, la prospettiva nella quale viene traguardata la riforma dell’Emission Trading System, che punta ad estenderne l’applicazione anche al di là del settore energetico, abbracciando quello marittimo, i trasporti e l’edilizia.

Analogo, inoltre, lo spirito che ci pare di poter cogliere nel nuovo Piano d’Azione per l’Economia Circolare, che alza lo sguardo dalla sola gestione dei rifiuti e affronta il tema, divenuto ormai inderogabile, dell’uso sostenibile delle risorse, a partire da quei settori che ne fanno un consumo più intensivo come, ad esempio, l’industria alimentare, il tessile e, di nuovo, l’edilizia. L’aspetto qualificante di questo Piano, in particolare, risiede nel fatto che se ne prevede l’integrazione alla prossima Strategia Industriale europea, in linea con la necessità di adottare quella prospettiva costitutivamente sistemica che anche l’Economist, come abbiamo visto, non ha mancato di caldeggiare.

Nei prossimi mesi, la pubblicazione del Programma di lavoro della Commissione riempirà di ulteriori contenuti questi e altri capitoli della transizione che abbiamo davanti, di cui in questa sede non pretendiamo certamente di esaurire ogni aspetto. Le premesse però sono positive e configurano preziose aree di convergenza fra istituzioni, imprese e cittadini, opportunità che invitano tutti gli attori in campo a non muoversi in ordine sparso e a non disperdere le energie. In altre parole, l’urgenza che ci impone di agire subito non deve diventare un alibi per giustificare fughe in avanti che precluderebbero risorse, tempi e progettualità indispensabili allo scopo, in un momento storico che – peraltro – consegna proprio all’Europa il compito di tracciare una strada di cui nessun’altra grande economia del mondo, dagli Stati Uniti alla Cina passando per il Brasile, sembra oggi “capace”.

 

*AD Gruppo Hera

 

NOTE


[1] Cfr. Massimo Leone, “Preservare il senso, sovraesposizione all'inquinamento semiotico”, 2004, disponibile su https://www.academia.edu/177281/2004_Preservare_il_senso_-_Sovraesposizione_allinquinamento_semiotico

[2]Cfr. Ellen Mac Arthur Foundation e Material Economics, “Completing the picture: how circular economy tackles climate change”, 23 Sept 2019.

[3] Altrimenti noti come TEE, Titoli di efficienza energetica.

[4] “Serve un capitalismo partecipativo per fare cose concrete”, intervista a Fabrizio Barca su Businessinsider.com

[5]The climate issue, The Economist, September 21st-27th 2019

[6]L’Italia e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, Rapporto ASviS 2019

[7] Il Rapporto Nazionale sull’Economia Circolare in Italia 2019 è realizzato dal Circular Economy Network, la rete promossa dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile insieme a 13 aziende e associazioni di impresa e dall’Enea

[8] Il valore è attribuito secondo il grado di uso efficiente delle risorse, utilizzo di materie prime seconde e innovazione nelle categorie produzione, consumo e gestione dei rifiuti. L’Italia, a 103 punti, è seguita da Regno Unito (90), Germania (88), Francia (87) e Spagna (81).

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