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CLIMA: E' BUONO L'ESEMPIO DELL'UNIONE EUROPEA?

La Mosca Cocchiera

di: Giovannangelo Montecchi Palazzi
L’Europa contribuisce alla produzione totale di CO2 per l’11%, una quota destinata a ridursi per il prevedibile aumento delle quantità prodotte da altri Paesi che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto e, soprattutto, Paesi in via di sviluppo. Si è posta inoltre, per la prossima decade, obiettivi molto ambiziosi, confidando di proporsi con ciò come il modello da seguire, in un politica di “leading by example”. Si può tuttavia dubitare della bontà di tale politica e della sua efficacia, rispetto ad un più rude approccio “Coercing through interest”.



Nella lotta ai cambiamenti climatici causati dai gas a effetto serra (GHGs) prodotti dalle attività umane l’Unione Europea si è attribuita il ruolo di esempio per il resto del mondo (“leading by example”), ma vi sono motivi per dubitare che le sue azioni siano all’altezza di tale ambizioso proposito.

Vero è che, andando oltre quanto previsto dal Protocollo di Kyoto, l’UE si è data obiettivi molto stringenti. Da ultimo, all’unanimità dei suoi Stati membri, si è impegnata a ridurre le emissioni di CO2 del 40% entro il 2030 rispetto al livello del 1990, a produrre almeno il 27% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili e a migliorare del 27% l’efficienza energetica.  Sono indubbiamente obiettivi ambiziosi. Basti osservare che si tratta di duplicare in soli 10 anni ulteriori la riduzione di CO2 del 20% già prevista nell’arco del trentennio 1990 – 2020.

Tuttavia tali lodevoli sforzi sono perseguiti mediante misure burocratiche complesse, sovente poco efficaci ed economicamente dannose, ma, soprattutto, prese in pressoché assoluto isolamento.

In merito è opportuno ricordare che l’UE produce 3,5 miliardi di tonnellate annue di CO2, l’11% del totale mondiale (circa 32 miliardi di tonnellate nel 2012, che diventano circa 50 miliardi di CO2 equivalente aggiungendo gli altri GHGs, CH4, NOx, HFCs), che importanti Paesi sviluppati non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto e che i PVS (Paesi in Via di Sviluppo) non sono ancora tenuti ad alcuna riduzione. 

Alla prossima COP21 ( 21esima Conference of Parties) che si terrà a Parigi a fine anno ci si attende che tutti i Paesi che hanno aderito alla UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) assumano impegni di riduzioni delle emissioni equi e quantificabili.  Purtroppo - dato il gran numero dei partecipanti, la complessità delle considerazioni tecniche e di giustizia distributiva tra Paesi sviluppati e PVS nonché, tra questi ultimi, la rigidità delle posizioni di alcuni tra i maggiori emettitori di GHGs come Cina, India e Brasile – è da prevedere un negoziato assai arduo ed è plausibile temere un esito deludente.

In una visione necessariamente globale e non solo euro-centrica dei cambiamenti climatici è essenziale sottolineare la futura rilevanza assoluta dei PVS non solo per motivi tecnici, ma anche, e soprattutto, etici.

Secondo l’OCSE su 194 Stati membri dell’ONU i PVS sono 150, rappresentano circa l’80% della popolazione mondiale ed hanno superato i Paesi sviluppati sia nel consumo di energia primaria (57% del totale mondiale nel 2011) che nella produzione di GHGs e di emissioni nocive alla salute umana. E il divario con i Paesi sviluppati non farà che aumentare.  Infatti, mentre in questi ultimi i consumi energetici e le conseguenti emissioni rimarranno pressoché stabili, nei PVS sono destinate a crescere per motivi demografici (i prossimi 2 miliardi di nuovi abitanti del pianeta risiederanno quasi esclusivamente nei PVS), per l’intensità energetica di partenza bassa o bassissima che aumenterà fatalmente in parallelo coi redditi nazionali e per l’urbanizzazione.

Secondo la IEA (International Energy Agency) nei prossimi 25 anni la domanda di energia dei PVS crescerà del 37%.  L’OCSE prevede, invece, una crescita del 2,2% l’anno che, se confermata, comporterebbe un aumento del 72% nello stesso arco di tempo.

Ma per ben comprendere le variegate posizioni dei PVS ed i problemi di equità distributiva che sollevano non basta sottolineare l’ovvio: che l’energia è essenziale per lo sviluppo economico e, quindi, per ogni sviluppo sociale sostenibile.  E’ necessario almeno accennare agli aspetti etici.  In proposito basti ricordare che circa 1,2 miliardi di esseri umani non hanno ancora accesso all’elettricità e altri 2,5 miliardi sono “sotto-elettrificati”. In altre parole metà della popolazione mondiale è priva o parzialmente priva di diritti umani fondamentali. Senza elettricità non solo non c’è progresso economico, vi sono anche difficoltà di istruzione, di informazione, di tutela della salute, di diritti delle donne. A ciò vanno aggiunti i costi, stimati in US$ 23 miliardi l’anno, per l’acquisto di kerosene e gli incidenti e le malattie prodotte da fumi, causa in Africa di 600.000 morti premature l’anno.

Che cosa ha fatto la UE per favorire la transizione energetica dei PVS e contenere i futuri aumenti dei GHGs che essi produrranno in modo pressoché esclusivo? in pratica nulla.

Ha preso misure a carattere interno ignorando i tre meccanismi di “trading” internazionale previsti dal Protocollo di Kyoto: ET - Emission Trading tra Paesi avanzati, JI - Joint Implementation con i Paesi in Transizione e CDM - Clean Development Mechanism coi PVS.  Il suo ETS - Emission Trading System è stato impostato in splendido isolamento autarchico e il complesso sistema burocratico-dirigistico di “cap and trade” che ne è derivato si è tradotto in un fallimento.

Non è facile individuare i costi dell’ETS per le imprese né sceverare i suoi risultati in termini di riduzioni di emissioni da quelli ottenuti mediante altre politiche (rinnovabili, efficienza energetica, norme sui trasporti ecc.), tuttavia è indubbio che, a causa degli eccessivi permessi gratuiti concessi inizialmente e della successiva crisi economica, esso ha mancato il suo obiettivo di un costo di € 30 la tonnellata.  Ora il prezzo di mercato oscilla intorno a 1/5 del valore-obiettivo.

Inoltre l’ETS “isolazionista” esce assi malconcio dal confronto col CMD.  Se è, infatti, intuitivo che, ad esempio, eliminare una tonnellata di CO2 costa meno in India che in Italia ove l’intensità energetica è quattro volte inferiore, le cifre sono impietose.  Negli ultimi 10 anni il CDM ha eliminato emissioni pari a 1,5 miliardi di tonnellate di CO2 contribuendo a promuovere 7.800 progetti in 107 PVS con un risparmio per questi ultimi stimato in US$ 3,6 miliardi.  Il prezzo di mercato di una tonnellata di CO2 è sceso da 10 US$ a 1 US$.  In difetto di stime delle riduzioni attribuibili allo ETS, l’efficacia ambientale del CDM, circa 150 milioni di tonnellate annue di CO2, può essere confrontata con le riduzioni ottenute dalle politiche europee sulle fonti rinnovabili, idroelettrica esclusa: 29 milioni di tonnellate annue secondo “The Economist”, il triplo secondo fonti tedesche (rispettivamente 1 e 3 per mille delle emissioni della UE).   Alla recente conferenza di Lima Hugh Sealy, il responsabile ONU del CDM, ha definito lo ETS “dumb” (stupido). 

La schiettezza del Sig. Sealy, inconsueta nei felpati ambienti onusiani, ha destato scalpore. Riesce tuttavia difficile non condividerla se, ulteriormente, si confrontano i risparmi ottenuti grazie al CDM con gli incentivi concessi nella UE alle rinnovabili.  Secondo Diplomazia Economica Italiana i primi 5 Paesi europei spendono in tali sussidi circa € 48 miliardi annui, ben 153 volte quanto speso in ricerca sulle medesime rinnovabili (€ 315 milioni).  Non esattamente un modello di impiego delle risorse intellettuali oltre che finanziarie! 

L’Italia con € 12.5 miliardi nel 2014, di cui circa la metà spesi nel fotovoltaico, secondo la IEA si colloca il 3° posto al mondo quanto a incentivi. Si tratta di un’autentica tassa di scopo pari a circa lo 0,7% del PIL, più di € 200 “pro capite”. Oltre tutto è una tassa occulta, perché pagata in bolletta, e regressiva, perché i consumi di elettricità non aumentano in proporzione lineare coi redditi.

Anche la Corte dei Conti Europea ha richiamato l’attenzione sull’inefficienza di tal genere di spese (”La Commissione deve anche accertarsi che i programmi che vengono finanziati dagli Stati membri siano efficienti”).

Ma gli oneri delle politiche energetiche per i cittadini europei non si limitano a forme di tassazione più o meno occulte. Ad essi vanno sommati i costi di adempimento derivanti dalle normative ambientali adottate dagli Stati membri, costi ardui da stimare e da attribuire, ma ingenti.

A titolo di esempio, CDC Climat Recherche ha stimato che in Francia, a fronte di sussidi diretti alle rinnovabili di € 3 miliardi l’anno, l’onere complessivo della transizione energetica ammonta a € 22 miliardi, di cui solo € 5,2 miliardi a carico del settore pubblico, € 11,1 miliardi a carico delle imprese e € 5,9 miliardi delle famiglie.

Infine, per una valutazione complessiva delle politiche ambientali europee è necessario considerare anche il cosiddetto “carbon leackage”, cioè il trasferimento fuori dell’Unione di produzioni “carbon intensive” al fine eludere i costi sopra accennati, con conseguente perdita di produzioni e di posti di lavoro.  Un “dumping ambientale” che si somma al più noto “dumping sociale” a vantaggio dei Paesi meno avanzati in fatto di ambiente e di protezioni sociali.  E’ un fenomeno preoccupante, anche se difficile da quantificare, contro il quale le misure finora adottate dalla UE ben poco possono fare. Basti ricordare che secondo la IEA nel 2012 i prezzi dell’energia per l’industria europea sono risultati circa il doppio di quelli USA e del 60% superiori a quelli cinesi.

A tutto ciò si aggiungono non trascurabili perplessità scientifiche e tecniche d’ordine generale.

Ad esempio, se dobbiamo credere ad un articolo pubblicato da “The Economist” nel settembre scorso, l’estensione agli idro-fluoro-carburi (HFCs) del divieto previsto dal Protocollo di Montreal per i cloro-fluoro-carburi (CFCs) si tradurrebbe, oltretutto a costi contenuti, in una riduzione di emissioni di CO2 equivalente pari a 4 miliardi di tonnellate annue, oltre 6,5 volte  quanto ottenuto a livello mondiale tramite le fonti rinnovabili idroelettrica esclusa (600 milioni di tonnellate) grazie a incentivi stimati in US$ 214 miliardi nel 2013 e superiore dalle 180 alle 40 volte, a seconda delle stime, a quanto ottenuto nella UE grazie a incentivi stimati in € 46 miliardi annui per i soli primi cinque Stati membri e ad un costo complessivo per la UE28 certamente superiore.

Sempre secondo “The Economist”, nella produzione di idrocarburi si potrebbero ridurre le emissioni da 5 a 7 miliardi di tonnellate annue di CO2 equivalente migliorando l’efficienza e, soprattutto, contenendo le perdite di metano (CH4), cui andrebbe aggiunto il rilascio in atmosfera di altre ingenti quantità di gas a effetto serra (CO2, NOx) non prese in considerazione dalla rivista e neppure, fatto sorprendente, dagli esperti dell’ IPCC - Intergovernmental  Panel on Climate Change, l’organismo tecnico dell’ONU, nei loro periodici rapporti.  Il contenimento di tali rilasci è anche una delle azioni prioritarie proposte dalla IEA.

Altra azione prioritaria indicata dalla IEA è l’efficientamento delle centrali termoelettriche a carbone, un combustibile fossile che ancora contribuisce al 30% del consumo di energia primaria al mondo e al 40% della generazione di elettricità.  Secondo l’EPPSA, l’associazione europea dei produttori de centrali termoelettriche, l’applicazione delle note e collaudate BAT (Best Available Technologies) alle circa 2.000 centrali a carbone in funzione nei PVS consentirebbe di ridurre le emissioni di 1,5 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno.

Se le diverse considerazioni e cifre sopra riportate in modo sommario e non sistematico non sono del tutto infondate, le politiche ambientali autoreferenziali della UE, sono lungi dall’essere ottimali a livello globale.

Si impongono alcune ovvie riforme di stampo specifico e settoriale ed una, ampia e coraggiosa, a carattere generale.

Esempi di ovvie riforme specifiche:

- rottamare i sussidi alle tecnologie inefficienti e superate come il fotovoltaico tradizionale,

- abolire le norme a sostegno dei biocarburanti che, oltre ad essere costosi e poco efficienti sotto il profilo energetico, sono stati definiti dall’ONU “un crimine contro l’umanità” in considerazione degli 820 milioni di essere umani che soffrono di denutrizione e dei milioni di morti l’anno che ne conseguono,

- dirottare le ingenti risorse così risparmiate a sostegno della ricerca, delle nuove tecnologie (tra le quali il solare di terza generazione) e dell’efficienza energetica,

- ricorrere al CDM per favorire la transizione energetica dei PVS dai quali proverrà quasi esclusivamente l’aumento dei gas a effetto serra e nei quali massicci miglioramenti di efficienza energetica possono essere ottenuti costi ridotti,

- allargare gli orizzonti a nuove azioni possibili come la proibizione degli idro-fluoro-carburi,

- affrontare il tema, finora incomprensibilmente trascurato, dei gas a effetto serra prodotti in fase di estrazione degli idrocarburi.

La riforma coraggiosa, da tempo propugnata da più parti, è l’introduzione della “carbon tax”, una tassazione “pigouviana” per far pagare l’esternalità negativa delle emissioni in modo trasparente ed equo sotto il profilo distributivo, oltre che più efficiente di quanto ottenuto mediante meccanismi dirigisti.  Non più tasse occulte e regressive sui consumi, non più tentativi velleitari di gestire i complessi ed imprevedibili mercati futuri dell’energia tramite schemi burocratici come l’ETS, non più costi opachi ed erratici, ma un costo trasparente e uguale per tutte le fonti di GHGs.

Purtroppo l’idea di proporre una nuova tassa produce in tutti i politici una reazione di rigetto automatica ed istantanea.  Tuttavia “The Economist”, da sempre propugnatore della “carbon tax”, ha di recente segnalato l’opportunità offerta dal calo dei prezzi dei combustibili fossili.  Tale calo, che sembra destinato ad una certa durata, offre la possibilità di introdurre la nuova tassa senza aumentare il livello dei prezzi, di “spennare l’oca senza farla troppo strillare”.   Tanto più che in molti casi non si tratterebbe di nuova imposizione, ma della rimodulazione/traslazione a monte di imposte esistenti.  Che altro non sono, infatti, i prelievi che già gravano sui consumi di energia?

Certo non si tratterebbe di una transizione semplice e neppure agevole, ma la “global energy deflation” e l’attuale non inflazione delle economie europee, che rischia di tramutarsi in deflazione, offrono un’occasione irrepetibile per un tentativo del genere. E gli Stati membri dispongono di una messe di indicatori di intensità carbonica adeguata a definire criteri equilibrati ed a rendere tale transizione tecnicamente fattibile.

L’introduzione della “carbon tax” consentirebbe anche di contrastare con efficacia il processo di depauperamento in atto dell’economia europea a causa del “dumping ambientale”.  Come indicato dall’Avv. Agime Gerbeti nel suo interessante ed innovativo volume “CO2 nei beni industriali e competitività industriale europea”, il prelievo alla frontiera di una “carbon tax” pari a quella applicata alle produzioni interne non sarebbe contraria alle norme del WTO a condizione che i produttori di Paesi terzi possano esserne esentati ove dimostrino di rispettare i parametri europei.

La possibilità di accesso al mercato della UE, primo al mondo per importazioni, costituirebbe per i produttori dei Paesi terzi un forte incentivo ad adeguarsi alle norme ambientali europee. “Coercing through interest” suona rude, ma sarebbe ben più efficace del “leading by example”.

Si tratta di un sogno?

Chi scrive, agricoltore “part time” per tradizione di famiglia, ricorda un mutamento radicale comparabile a quello testé proposto: la riforma della PAC – Politica Agricola Comune promossa nel 1992 dal Commissario McSharry. 

La PAC era l’onere principale a carico del bilancio della Commissione e, con un costo annuo attuale di € 57,4 miliardi in riduzione programmata a € 38,1 miliardi, lo resta tuttora. Prima della riforma essa sosteneva i prezzi dei prodotti agricoli non solo contravvenendo alle norme del WTO (allora GATT), ma anche distorcendo i mercati.  “Montagne di burro” e “laghi di latte” prodotti in eccedenza venivano esportati in “dumping”, specie nei PVS, a danno degli agricoltori locali.  La riforma trasferì il sostegno dai prezzi ai redditi non solo eliminando così le violazioni delle norme internazionali, ma anche ottenendo un successo complessivo interno ed internazionale che si stenta a ritrovare nelle politiche ambientali.

Nella UE vi sono 12 milioni di agricoltori più 4 milioni di occupati nell’agroalimentare che insieme generano il 7% dell’occupazione ed il 6% del PIL.  Non solo i mercati internazionali non sono più distorti, ma l’Unione, grazie anche al suo sistema di preferenze, importa dai PVS € 60 miliardi l’anno di prodotti agricoli.  Anche l’ambiente ne trae beneficio perché il 30% dei contributi è subordinato al rispetto di norme di “greening”.

L’onere diretto delle politiche contro i cambiamenti climatici sui bilanci della Commissione è inferiore a quello della PAC e, quindi, meno visibile, meno aggredibile e assai meno aspramente discusso in sede di “triloquio” col Consiglio ed il Parlamento europei perché in massima parte è distribuito a livello degli Stati membri e neppure è percepito dai cittadini perché nascosto o perché risultante da obblighi i cui costi di adempimento sono difficilmente quantificabili. Ma dalle stime sopra riportate risulta inconfutabile che l’onere complessivo è di gran lunga superiore, così come sono inconfutabili i danni per la competitività dell’economia.

In contropartita i benefici ambientali ottenuti mediante azioni interne sono modesti e sproporzionati ai costi, mentre a livello globale sono pressoché ininfluenti. L’ambizione dell’Unione di essere “leader by example” appare, quindi, velleitaria.

E’ necessario un ripensamento radicale, aperto alla realtà dell’atmosfera terrestre che non è solo quella sopra Bruxelles, ma riguarda l’intero pianeta.   Nell’interesse precipuo dell’ambiente cercasi un nuovo McSharry per una politica comune davvero valida.

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