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IL TAGLIO DI HOLLANDE SUL NUCLEARE

Que reste-t-il…

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di: Roberto Mezzanotte
Non è ancora chiaro come sarà attuata la promessa riduzione della quota di elettricità prodotta dalle centrali nucleari. È invece chiaro che quella francese continuerà ad essere una quota record.



La promessa che François Hollande aveva fatto durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2012 si è tradotta nel disegno di legge che il ministro dell’ecologia, dello sviluppo sostenibile e dell’energia, Ségolène Royal, ha presentato al Consiglio dei ministri l’estate scorsa e che è ora all’esame dell’Assemblea nazionale: la riduzione del peso del nucleare nel mix energetico del paese.

Per esser precisi, più che tradursi in un disegno di legge, l’impegno a far scendere entro il 2025 la percentuale di energia elettrica prodotta dalle centrali nucleari dai livelli attuali (che oscillano intorno al 75%) ad un più contenuto 50% è inserito in un progetto di legge assai più ampio, inteso a delineare un nuovo e complessivo modello energetico per la Francia. Come infatti afferma sin dall’inizio la relazione illustrativa che lo accompagna, di altisonanza commisurata al rilievo del tema, il progetto di legge, nato a conclusione di un dibattito nazionale sulla transizione energetica che ha coinvolto in un anno duecentomila cittadini francesi, fissa gli obiettivi, traccia il quadro, dispone gli strumenti necessari per costruire “un modello più diversificato, più equilibrato, più sicuro e più partecipativo”, che impegnerà tutto il paese in una via di “crescita verde”, mirando a contrastare il riscaldamento globale, a lottare contro la disoccupazione, a ridurre la bolletta energetica che oggi pesa sulla bilancia commerciale e sulle finanze pubbliche nazionali per settanta miliardi di euro.

Agli obiettivi generali perseguiti dal nuovo modello è dedicato il primo degli otto titoli di cui la legge si compone.

Al primo posto vi è la riduzione delle emissioni dei gas-serra. Facendo riferimento a quelle del 1990, l’abbattimento dovrà essere del 40% entro il 2030 e del 75% entro il 2050.

Il secondo punto riguarda la riduzione dei consumi energetici finali, con un taglio del 50% entro il 2050 rispetto a quelli registrati del 2012, e l’abbassamento dell’intensità energetica finale: 2,5% all’anno fino al 2030.

Vi è poi la riduzione dei consumi finali dell’energia prodotta con i combustibili fossili: entro il 2030 saranno il 30% in meno di quelli del 2012.

L’energia dalle fonti rinnovabili, ora al 14%, salirà al 23% dei consumi finali entro il 2020 e al 32% entro il 2030. Quest’ultimo obiettivo potrà essere raggiunto, secondo la relazione illustrativa, portando il calore rinnovabile al 38% di quello consumato, la quota dei biocombustibili al 15% della quantità di combustibili complessiva e la produzione di elettricità rinnovabile al 40% del totale, il doppio della quota attuale.

Infine l’energia nucleare: il suo contributo alla produzione di elettricità dovrà scendere, come già annunciato da tempo, al 50% entro il 2025.

 

Il testo del progetto di legge non è di lettura immediata, anche perché, per la maggior parte dei suoi 64 articoli, è posto in forma di modifiche, spesso puntuali, a leggi preesistenti, perlopiù il codice dell’energia, ma anche il codice dell’ambiente e quello di urbanistica. Sembra però evidente, come è peraltro ovvio che sia, che le pur numerose disposizioni in esso contenute e gli strumenti previsti delineano un percorso che dovrà essere compiuto con provvedimenti da prendere negli anni a venire, ma non sono di per sé sufficienti ad assicurare l’automatico raggiungimento degli obiettivi generali posti, tant’è che lo stesso articolato prevede la possibilità della loro revisione, sulla base del contenuto di un rapporto quinquennale che deve essere presentato al Parlamento e della valutazione delle politiche adottate per il loro perseguimento.

Per quanto in particolare riguarda la riduzione della quota di energia elettrica da fonte nucleare, l’enunciazione dell’obiettivo non è accompagnata, come si potrebbe pensare, da norme che, ad esempio, dispongano la chiusura delle centrali al raggiungimento di una determinata anzianità. La sola norma che – volendo - potrebbe essere vista come cautamente orientata verso quella direzione è quella che prevede che, a seguito di una cessazione del funzionamento che si protragga ininterrottamente per due anni (termine che su istanza dell’esercente può essere prorogato sino a cinque anni), un impianto nucleare debba essere considerato spento definitivamente e quindi avviato al decommissioning (articolo 32).

Come verrà ridotta, quindi, la quota del nucleare?

L’unica disposizione in qualche modo limitativa, ma non certo drastica, riscontrabile nell’intero progetto di legge è quella che pone un tetto alla “potenza nucleare” totale installata, la quale non potrà superare il valore della potenza installata attuale: 63,2 GW. Ciò non significa quindi che non potranno essere costruite nuove centrali nucleari, ma che nuove centrali potranno essere autorizzate solo in sostituzione di quelle che verranno spente definitivamente ed entro il limite della potenza di queste ultime (è questa infatti la formulazione dell’articolo 55 del progetto: L’autorisation mentionnée à l’article L. 311-1 ne peut être délivrée lorsqu’elle aurait pour effet de porter la capacité totale autorisée de production d’électricité d’origine nucléaire au-delà de 63,2 GW.).

Se questo avvenisse, se cioè, pur senza variazione della potenza complessiva, le vecchie centrali fossero progressivamente sostituite da nuove centrali (o ancor più semplicemente, se nessuna centrale nucleare venisse spenta, attuando la life extension ampiamente prospettata prima di Fukushima), l’obiettivo della riduzione della percentuale dell’energia da fonte nucleare al 50% (cioè -25% circa rispetto ad oggi) potrebbe essere raggiunto solo attraverso due provvedimenti, più o meno combinati tra loro: la limitazione del fattore di utilizzazione delle centrali nucleari, che però non è propriamente il modo ottimale di farle funzionare, e l’aumento della produzione complessiva di energia elettrica attraverso l’incremento della produzione da altre fonti, in particolare da quelle rinnovabili. Per quest’ultimo provvedimento i margini di manovra non sembrano però molto ampi, considerando che il raggiungimento del 40% di elettricità rinnovabile, a partire dall’attuale 20%, è programmato solo per il 2030 e che un’eventuale compensazione con combustibili fossili non sarebbe certamente in linea con gli obiettivi generali del nuovo modello energetico.

Va poi osservato che lo spegnimento degli impianti vecchi, che potrebbe apparire il provvedimento più ovvio per ridurre la quota del nucleare, non sembra essere oggi una soluzione molto considerata, soprattutto nelle intenzioni dell’esercente: basti pensare che non viene più dato tanto per scontato neanche il destino della centrale più vecchia ancora in esercizio, quella di Fessenheim (due unità entrate in funzione nel 1977, ma recentemente oggetto di importanti interventi di adeguamento), per la quale, prima delle elezioni, era stata concordata con il partito dei Verdi la chiusura entro il 2016 (c’è chi osserva che l’uscita della Europe Écologie – Les Verts dal governo, avvenuta nella primavera scorsa a causa dell’attenzione, giudicata insoddisfacente, dedicata sino ad allora alle questioni ambientali abbia avuto come effetto una generale riduzione della pressione sul governo stesso per questi temi).

Vi è peraltro da dire che una eventuale norma che imponesse lo spegnimento (senza sostituzione) dei reattori al compimento di una determinata età potrebbe essere certamente sufficiente, ed anche ampiamente, ad assicurare il raggiungimento dell’obiettivo posto, ma potrebbe portare a un periodo transitorio difficilmente gestibile. Ad esempio, facendo due conti, si vede che la chiusura automatica delle centrali dopo quaranta anni di esercizio farebbe passare nel 2025, in termini di potenza installata, gli attuali 63,2 GW a circa 38 GW, con una riduzione che farebbe scendere in quell’anno la quota di nucleare intorno al 45% dell’energia elettrica totale prodotta, pur assumendo che questa non aumenti, ma resti costante. Questo taglio, pari al 30% circa della produzione complessiva di energia elettrica, sarebbe però concentrato in un arco di tempo ristretto, intorno al 2020, in corrispondenza dei quaranta anni dal picco di entrata in funzione dei reattori francesi che si è avuto tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80. Inoltre, una simile eventuale norma continuerebbe ad avere effetti anche dopo il 2025, con una prosecuzione della riduzione della quota nucleare che non è tra gli obiettivi generali enunciati nel progetto di legge.

Tuttavia, a conferma dell’esiguità dei margini di manovra, se anziché disporre la chiusura dei reattori al 40° anno di età si ipotizzasse di prolungarne la vita sino al compimento del 45° anno, nel 2025 la riduzione della potenza installata sarebbe solo di 9,9 GW, che, sempre a produzione complessiva di energia elettrica costante, porterebbe la quota di produzione da nucleare al 62% circa, un taglio quindi insufficiente a raggiungere l’obiettivo.

Questo non potrà dunque essere perseguito con semplici provvedimenti di tipo automatico, ma richiederà un insieme più articolato di interventi mirati, eventualmente includendo, tra gli altri aspetti selettivi, anche una rivalutazione dei dati di input per i rischi naturali, secondo i criteri più aggiornati e prudenziali, a partire dai siti più vecchi.

Si dovrà poi tenere conto che, dal punto di vista dei numeri, vi è un’ulteriore complicazione, rappresentata dal fatto che per il 2016 è previsto l’avviamento di un nuovo reattore da 1600 MW sul sito di Flamanville.

Staremo a vedere.

 

È interessante osservare che l’articolo 34 del progetto di legge, in maniera analoga a quanto avviene in Italia con le leggi di delega legislativa, autorizza il governo a emanare le disposizioni necessarie per dare attuazione alla direttiva 2011/70/Euratom, in materia di gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato.

Detta direttiva, emanata il 19 luglio 2011, richiedeva che i paesi membri le dessero attuazione entro il 23 agosto 2013.

Rispetto a quella data, anche in Italia si è registrato un certo ritardo, seppure contenuto, dal momento che il recepimento è avvenuto con il decreto legislativo n. 45, del 4 marzo 2014. Ciononostante, già il 21 novembre 2013 la Commissione europea aveva trasmesso al governo italiano, tramite la Rappresentanza permanente presso l’Unione europea, una formale lettera di costituzione in mora, primo passo della procedura di infrazione. In essa veniva evidenziata la mancata comunicazione delle misure di attuazione della direttiva - che infatti non erano ancora state prese - e venivano assegnati due mesi di tempo per fornire le necessarie spiegazioni.

C’è da immaginare che una lettera del tutto simile sia stata indirizzata anche alla Francia e che i “solleciti” nei suoi confronti siano diventati ormai molto pressanti e che sempre più lo diventeranno, considerando il tempo ancora necessario perché la legge sia promulgata e il governo dia poi seguito all’autorizzazione ricevuta.

Vi è però da dire che, in tema di rifiuti radioattivi, Italia e Francia si trovano in situazioni del tutto differenti.

L’impegno più rappresentativo e complessivo richiesto dalla direttiva europea è l’elaborazione di un “programma nazionale” in cui ciascuno stato membro illustri la propria politica per la gestione responsabile e sicura del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, nel rispetto dei requisiti specifici posti dalla direttiva stessa. Il programma dovrà essere trasmesso alla Commissione europea “non oltre il 23 agosto 2015”.

Il programma nazionale italiano è tutto da scrivere, anche se il decreto legislativo 45/2014, nel dare attuazione alla direttiva, ha prudentemente previsto, in considerazione della ricordata, perentoria scadenza del 23 agosto 2015 e ad evitare quindi l’apertura di una nuova procedura di infrazione, che esso sia definito con diversi mesi di anticipo, entro il 31 dicembre prossimo, termine questo ovviamente ordinatorio. Nel programma, in estrema sintesi, dovranno essere indicati modi e tempi con i quali si intende dare sistemazione ai 28 mila metri cubi di rifiuti radioattivi già esistenti e sparsi sul territorio nazionale, a una quantità simile di rifiuti che si produrranno con lo smantellamento degli impianti nucleari, a un quantitativo nettamente minore, ma significativo per la loro tipologia, di rifiuti che dovranno rientrare in Italia dai paesi – Inghilterra e la stessa Francia – dove il combustibile usato nelle centrali italiane è stato spedito per essere riprocessato; dovranno essere poi indicate le modalità con le quali si intendono gestire i rifiuti (qualche centinaio di metri cubi all’anno) che continueranno, anche nel futuro, ad essere prodotti, soprattutto negli ospedali, dove si impiegano materie radioattive. Indicare il modo per fare ciò non sarà difficile, visto che la soluzione, che ha per perno la realizzazione di un deposito nazionale, prospettata ormai da venti anni e condivisa pressoché unanimemente, è anche sancita, sin dal 2010, da un decreto legislativo che ne definisce gli aspetti procedurali. Tuttavia, il fatto che, dopo oltre quattro anni, si sia solo all’inizio del percorso e che questo si presenti lungo ed irto di difficoltà, non solo rende aleatoria un’indicazione dei tempi, ma può far purtroppo temere per il successo stesso dell’impresa.  

La situazione francese è come detto molto diversa. Da un lato, il quantitativo di rifiuti radioattivi già prodotti è spaventosamente più grande, circa un milione e mezzo di metri cubi, mentre tanti altri ancora - e non certo le sole poche centinaia di metri cubi che anche lì derivano annualmente dagli impeghi medici delle sorgenti radioattive - continueranno a prodursene; dall’altro lato, la Francia si è dotata da tempo degli strumenti necessari per gestirli in modo ordinato e nelle migliori condizioni di sicurezza disponibili, né d’altra parte avrebbe mai potuto fare, sin dalla prima crisi petrolifera, la scelta di basare la produzione di energia elettrica sul massiccio ricorso al nucleare senza che quella scelta venisse accompagnata da una serie di provvedimenti che la rendessero praticabile.

Così, un primo deposito di tipo superficiale, realizzato nel 1969 nel dipartimento della Manche, è stato chiuso nel 1994, dopo aver ricevuto oltre 500 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività. Si trova ora nella fase di sorveglianza post-chiusura la cui durata prevista è di 300 anni

Un secondo deposito per lo smaltimento dei rifiuti a bassa e media attività, anch’esso di tipo superficiale, realizzato in anticipo rispetto all’esaurimento del deposito della Manche, è in esercizio dal 1992 nel dipartimento dell’Aube. La sua capacità è di un milione di metri cubi e si prevede possa rimanere aperto fino alla metà di questo secolo, prima di iniziare la fase di sorveglianza post-chiusura.

Nello stesso sito dell’Aube, nel 2003 è stato aperto un terzo deposito, della capacità complessiva di 650 mila metri cubi, specificamente destinato allo stoccaggio dei rifiuti a bassissima attività e dei rifiuti radioattivi prodotti negli impieghi sanitari, nell’industria e nella ricerca. Nel deposito sono inoltre ospitati temporaneamente (la prospettiva è di trenta anni) rifiuti che non abbiano ancora una destinazione definita.

È infine previsto per il 2025 l’inizio dell’esercizio di un deposito geologico per i rifiuti ad alta attività. Il deposito, che però deve ancora superare tutte le fasi autorizzative, sarà situato al confine tra i dipartimenti della Mosa e dell’Alta Marna, nel comune di Bure, in una formazione argillosa datata 160 milioni di anni. A partire dal 2000 vi è stato realizzato un laboratorio sotterraneo (1200 metri di gallerie a una profondità di 490 metri) per la caratterizzazione delle proprietà dell’argilla e la verifica delle sue capacità di confinamento della radioattività e per studiare l’impatto che sulla formazione potrebbe avere la realizzazione del deposito, dagli scavi che vi saranno effettuati, agli effetti del calore prodotto dai rifiuti ad alta attività.

Insomma, anche se la direttiva non è stata ancora attuata, il programma nazionale francese si potrà presentare più definito, anche se ben più ampio e ben più complesso di quello italiano, e, per inciso, non sarà la riduzione al 50% della quota di energia elettrica da nucleare a consentire di ridurre, dopo il 2025, anche la sua ampiezza e la sua complessità, poiché, pur con quella quota ridotta, saranno comunque molto pochi i paesi che potranno (forse) contendere alla Francia il primato di paese al mondo più dipendente dall’atomo.

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