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ESITI DELLA COP23

Ridurre Non Basta Più. Occorre Riassorbire

di: Giovannangelo Montecchi Palazzi
The Economist rivela un problema serio passato sotto silenzio nell’ultima Conferenza delle parti sui Cambiamenti Climatici, svoltasi a Bonn lo scorso novembre. Secondo i modelli previsionali dell’IPCC, ridurre le emissioni di gas a effetto serra non sarebbe più sufficiente a raggiungere gli obiettivi indicati dagli accordi di Parigi.


Tra i molti commenti sugli esiti della COP23 a Bonn meritano attenzione due articoli comparsi su “The Economist” il 18 novembre. Il primo, editoriale dell’edizione, dal significativo titolo “What they don’t tell you” (Quel che non vi viene detto), riportato in copertina, riassume temi che vengono poi più attentamente esaminati nel secondo, intitolato “Sucking up carbon” (Riassorbire il carbonio).

Secondo “Quel che non vi viene detto”, un certo atteggiamento auto-congratulatorio, la polemica nei confronti dell’Amministrazione USA, i difficili negoziati per definire gli aspetti tecnici irrisolti degli impegni assunti a Parigi in sede di COP21 e quelli relativi al finanziamento del “Green Climate Fund” per aiutare i Paesi più poveri, hanno consentito alla COP23 di passare sotto silenzio e non affrontare un problema fondamentale: 101 dei 116 modelli previsionali utilizzati dallo IPCC (Intergovernmental Panel on Climatic Changes) indicano che per contenere entro 2° l’aumento delle temperature entro il 2100, come previsto dagli Accordi di Parigi, non sarebbe sufficiente ridurre drasticamente le emissioni gas ad effetto serra che, comunque, non potranno mai essere eliminate del tutto. Per centrare detto obiettivo e quello di “zero emissioni nette” entro il 2090, pure previsto dagli Accordi di Parigi, a partire dal 2040 circa si renderà necessario iniziare a riassorbire dall’atmosfera le emissioni residue non eliminabili nonché parte dello stock di emissioni accumulatesi in precedenza.  La quantità è stimata in 810 miliardi di tonnellate entro il 2100, pari a 20 anni delle emissioni antropogeniche attuali.

Si tratta di una quantità impressionante (“staggering”). Porre in essere sistemi di cattura del carbonio delle dimensioni richieste costituirebbe una sfida “epica” anche se disponessimo di strumenti efficaci e collaudati, che oggi non abbiamo.

Il secondo articolo “Riassorbire il carbonio” passa in rassegna gli strumenti possibili, ognuno dei quali presenta seri problemi di attuazione, tecnici o economici.

Facendo rinvio all’articolo per una più completa trattazione, a seguito si accenna ad alcuni di essi.

La cattura diretta dall’atmosfera è praticata in alcuni settori limitati, ad esempio per la produzione di 10 milioni di tonnellate di CO2 destinata alle bibite gasate. Ma il costo attuale, $ 600 la tonnellata, la rende proibitiva per 810 miliardi di tonnellate.

La decantata CCS (Carbon Capture and Sequestration) è ancora operativa solo su piccola scala: tramite 17 impianti elimina 1 milione di tonnellate annue. Inoltre, è molto onerosa e, comunque, riduce le nuove emissioni, non cattura le esistenti.

La BECCS - Bioenergy with Carbon Capture and Sequestration (impianti termici a biomasse accoppiati a CCS) consente di catturare CO2 a costi inferiori, stimati tra $ 60 e $ 250 la tonnellata. Il problema è che richiederebbe di rimboschire spazi molto vasti. Le stime oscillano tra 3,2 e 9,7 milioni di Km2, pari, rispettivamente, al 23% e al 68% della superficie arabile della Terra. Ciò non è compatibile con i pur notevoli progressi nelle rese dell’agricoltura moderna, già messa a prova dalle esigenze alimentari crescenti di 7,5 miliardi di esseri umani e dall’aumento imminente di circa 2 miliardi di nuove bocche da sfamare, per non parlare dei problemi ecologici e di biodiversità conseguenti a forestazioni di tali dimensioni.

Mutamenti nelle pratiche agronomiche, come ad esempio eliminare le arature profonde per consentire ai suoli di accumulare carbonio, sono possibili ed economiche, ma secondo gli esperti non sarebbero neppure sufficienti a compensare le emissioni del settore.

L’articolo menziona anche alcune soluzioni di “geoingegneria” che tradizionalmente gli ecologisti vedono con apprensione sia per le conseguenze possibili che nel timore che diventino “scorciatoie” per eludere il problema della riduzione delle emissioni.

Si tratta di proposte note e meno note, quali

- raffreddare la Terra immettendo in atmosfera gas che riflettano la luce solare,

- modificare l’alcalinità degli oceani affinché assorbano più CO2,

- il “weathering” che consisterebbe nell’accelerare da tempi geologici a pochi anni il processo di formazione di rocce contenenti carbonio (ma ciò richiederebbe di spargere in mare e in terra dalle 2 alle 4 tonnellate di silicati finemente macinati per ogni tonnellata di carbonio da eliminare, date le dimensioni del problema, un’autentica impresa tecnica e logistica).

A fronte di un quadro tecnico ben poco incoraggiante che non consente ancora di intravedere soluzioni vincenti, la rivista raccomanda di aumentare le ricerche su ogni possibile NET – Negative Emissions Technology e lamenta il fatto che tali ricerche siano finanziate in misura del tutto inadeguata.  Al riguardo cita il Prof. Massimo Tavoni del Politecnico di Milano, vice coordinatore del programma di ricerca sui cambiamenti climatici e lo sviluppo sostenibile della Fondazione ENI Enrico Mattei, il quale ha stimato in $ 65 miliardi la spesa annua che si renderà necessaria di qui al 2050 in ricerca e sviluppo a fronte di tutte le tecnologie “low carbon”.  Secondo il Prof. Tavoni una parte di tali risorse dovrebbe essere destinata alle tecnologie NET che ora ricevono poco o nulla.

Se le considerazioni svolte da “The Economist” non sono infondate, gli obiettivi previsti dagli Accordi di Parigi non sono raggiungibili soltanto mediante misure di riduzione delle emissioni.  Sarà quindi indispensabile iniziare a riorientare, fin dai prossimi anni, buona parte degli sforzi di ricerca e sviluppo in favore delle tecnologie NET.

Se le stime del Prof. Tavoni sono attendibili come ordine di grandezza, l’insieme delle risorse necessarie per la riduzione e per il riassorbimento delle emissioni porrà anche una sfida finanziaria di tutto rispetto sotto il profilo quantitativo e probabilmente anche sotto quello della distribuzione equitativa degli oneri tra Paesi sviluppati, responsabili della maggior parte delle emissioni passate, e i Paesi in via di sviluppo, responsabili del 60% circa delle emissioni attuali e di percentuali ancora maggiori nel prossimo futuro.

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