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IL TERREMOTO DIMENTICATO DEL CENTRO ITALIA

Più che il Sisma Poté la Burocrazia

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di: Nicoletta Tiliacos
Altro che politiche di prevenzione. La politica non è più in grado nemmeno di garantire il recupero dei territori colpiti da disastri naturali se è vero che la gestione del post terremoto 2016-17 appare tra le peggiori, se non la peggiore in assoluto, del dopoguerra. È quanto rileva l’autrice, giornalista e ambientalista, proprietaria di una casa distrutta dal sisma ad Arquata del Tronto e portavoce di un'associazione di proprietari nata dopo il sisma.


A più di tre anni e mezzo dagli eventi sismici che tra l’agosto del 2016 e il gennaio del 2017 lo hanno duramente colpito, il centro Italia terremotato continua a fare i conti con una ricostruzione solo promessa e mai davvero avviata, se non in pochissimi e circoscritti casi. Galoppa lo spopolamento e la sensazione prevalente, tra coloro che non vogliono lasciare i borghi feriti, è la desolazione. La grottesca vicenda dello smaltimento delle macerie, ancora da completare, il cui finanziamento era stato “dimenticato” nell’ultimo Milleproroghe salvo affannosa toppa messa dopo le proteste, la dice lunga sull’attenzione e la cura che i governanti – questi, come i precedenti – stanno riservando alla vicenda.

Pastoie burocratiche senza precedenti, modulate in 84 diverse ordinanze dall’inizio dell’emergenza, spesso emanate per rimediare a incongruenze e contraddizioni tra di esse, fanno sì che dall’emergenza non si riesca a uscire, mentre la gestione del post terremoto 2016-17 appare tra le peggiori, se non la peggiore in assoluto, del dopoguerra. Lontanissimo il virtuoso esempio del Friuli, con il suo modello di autonomia dei sindaci, lontana la buona esperienza umbra dopo il sisma del 1997, con una Regione in grado di agire e decidere. Perfino il tanto vituperato post terremoto abruzzese appare, a confronto di quanto (non) sta accadendo nel centro Italia, un miracolo di efficienza e velocità. Eppure è capitato perfino di sentire un ministro della Repubblica, la titolare del dicastero dei Lavori pubblici, Paola De Micheli, già commissario straordinario per il sisma tra il settembre del 2017 e l’ottobre del 2018, affermare poco tempo fa in tv che se la ricostruzione non marcia è colpa dei terremotati che non presentano i progetti, perché in tanti ormai preferiscono andare a vivere altrove!

Non è così, naturalmente. Nella quasi totalità dei casi ai privati non è materialmente possibile presentare progetti, soprattutto nella parte del cratere maggiormente distrutta. Il forte accentramento statale delle procedure, con ventidue passaggi burocratici per una pratica e i rimpalli tra enti diversi, perennemente sottodimensionati quanto a personale, sommato alla cronica incertezza sui compensi ai tecnici, di ordinanza in ordinanza sempre più oberati di obblighi e di spese da anticipare, rende l’impresa davvero titanica, se non impossibile. La Fondazione Symbola, che ha condotto uno studio sulla parte marchigiana (la più vasta) del cratere, ha calcolato che, al ritmo attuale di esame delle pratiche, si profilano tempi della ricostruzione di 30-35 anni: una pietra tombale su qualsiasi speranza di rinascita.

Questa è la realtà. Dei circa 22 miliardi di euro stanziati sono stati spesi appena 200 milioni e, a fronte di 66mila edifici privati danneggiati per i quali è previsto il contributo di ricostruzione, le richieste presentate non arrivano nemmeno a diecimila, delle quali quattromila sono quelle esaminate (dati Anci). Non se la passa meglio la ricostruzione pubblica, con tremila gli interventi finora programmati su edifici pubblici e scolastici e luoghi di culto e non più di quindicina (quasi tutte scuole) avviati o completati.

Nessuno pretendeva che potessero essere risanate in poco tempo le ferite di una catastrofe geologica senza precedenti in Italia nell’ultimo secolo, che ha messo in ginocchio territori già fragili, marginalizzati e colpiti da un annoso spopolamento, perdipiù ricadenti in quattro diverse regioni – Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo – con tutte le complicazioni del caso. Nessuno poteva però neanche immaginare il desolante girare a vuoto e la mancanza di visione politica – comune a tutti i governi che si sono avvicendati negli ultimi tre anni e mezzo – che fanno temere per la sopravvivenza stessa di un territorio prezioso, quintessenza di un’Italia ricca di risorse naturali, culturali, artistiche, capace di inventare e promuovere un’economia del buon vivere e dell’accoglienza che dovrebbe essere oggetto di orgogliosa valorizzazione.

Dopo il “dov’era, com’era”, proclamato a caldo dall’allora premier Matteo Renzi e poi giustamente ridotto a slogan consolatorio e irrealistico, dopo le promesse mai mantenute di semplificazioni e accelerazioni a ogni cambio di governo, dopo l’avvicendarsi di tre commissari straordinari (l’ultimo, il geologo Piero Farabollini, è decaduto a dicembre e ora è in regime di proroga), molte speranze erano state riposte nel Decreto legge 24 ottobre 2019, n. 123, intitolato “Disposizioni urgenti per l’accelerazione e il completamento delle ricostruzioni in corso nei territori colpiti da eventi sismici”.

Speranze mal riposte, a detta di chi ha davvero titolo per giudicare, ovvero i sindaci dei 138 comuni del cratere, che lo scorso 15 gennaio si sono incontrati a Roma per un’iniziativa di riflessione e di protesta promossa dall’Anci. Il decreto “risolutivo”, secondo le promesse del premier Conte e del sottosegretario Vito Crimi, incaricato di seguire la pratica della ricostruzione, risolutivo non è. Lascia intatta la piaga della grande precarietà delle strutture amministrative, con segretari comunali in condominio e nessuna possibilità di usare alternative che pure sono state proposte, mentre vengono mandati a casa giovani tecnici già formati, perché i loro contratti a tempo determinato sono scaduti, per lasciare il posto a nuovo personale a tempo da formare daccapo, con una perdita di tempo e di competenze che nessuno si può permettere. Nessun impegno per incentivi che veramente diano aiuto alle attività superstiti, per non parlare di attirarne di nuove. Nessuna deroga alle normative vigenti per evitare che si blocchino pratiche su pratiche per difformità infinitesimali.

A fronte di questa ennesima prova di sordità della politica, i sindaci chiedono: uno snellimento reale delle procedure di presentazione e approvazione dei progetti di ricostruzione; sostegno alle imprese attraverso l’introduzione di Zone economiche speciali e provvedimenti di defiscalizzazione a lungo termine nelle aree colpite dal sisma, per rendere davvero praticabile a famiglie e imprese la scelta di rimanere sul territorio; finanziamento a carico della gestione commissariale dei segretari comunali, per supplire alla grave carenza degli stessi; maggiori facoltà di decisione per sindaci e presidenti di Regione, afflitti dallo spettro paralizzante dell’Anac anche su questioni risolvibili con semplice buonsenso; possibilità di stabilizzare il personale precario delle amministrazioni; estensione dello stato di emergenza almeno fino a tutto il 2024, per avere il respiro necessario a programmare interventi complessi sul territorio e per non ritrovarsi, a ogni 31 dicembre, nella più totale incertezza; incremento del personale delle Soprintendenze regionali, per accelerare il recupero dei piccoli e grandi tesori d’arte capillarmente diffusi nel centro Italia e tanto importanti per le comunità e per quella cultura dell’accoglienza, fatta anche del rinnovarsi di antiche tradizioni devozionali.

Il tema della ricostruzione dell’Appennino ferito, in conclusione, è squisitamente politico. Nel senso che ha a che fare con la volontà politica – c’è o non c’è? – di riportare vita e attività nel cratere, soprattutto nelle zone oggi in via di desertificazione, investendo su un progetto di rinascita a lungo termine che ha bisogno di basi concrete ora, prima che vinca l’abbandono. A chi pensa che forse non vale la pena investire tante risorse in zone considerate marginali, non è difficile rispondere che un Appennino desertificato è qualcosa che il nostro Paese non può permettersi. Basti pensare solo alle risorse idriche che dall’Appennino dipendono, e alla piaga del dissesto idrogeologico che si ripercuote sulla salute dell’intero territorio nazionale, coste comprese.

“Non vogliamo essere complici dell’assassinio del nostro territorio”, ha detto all’incontro dei sindaci del 15 gennaio il primo cittadino di Pieve Torina. “Abbiamo bisogno di buone norme applicabili”, ha aggiunto. Qualcuno avrà orecchie per ascoltarlo?

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