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I DELITTI AMBIENTALI NEL CODICE PENALE

Giusto Principio, Attuazione Dubbia

Scritto il .

di: Roberto Mezzanotte
Con l’introduzione nel codice penale del Titolo “Dei delitti contro l’ambiente” sono state finalmente stabilite sanzioni commisurate alla gravità di comportamenti che erano prima puniti in modo assai lieve e spesso addirittura destinati a restare di fatto del tutto impuniti. La formulazione delle nuove norme, tuttavia, sembra presentare qualche criticità per quanto attiene alla precisa individuazione delle fattispecie dei reati ora previsti quali delitti.



Sono trascorsi oltre tre mesi dall’entrata in vigore della legge 68/2015, che ha introdotto nel codice penale nuovi articoli con i quali alcuni reati contro l’ambiente vengono sanzionati come delitti. Dopo la generale (e un po’ acritica) soddisfazione con cui le nuove norme sono state accolte dalla politica e dai media, si può oggi fare qualche riflessione su alcuni aspetti problematici, che peraltro gli operatori del diritto avevano evidenziato già in fase di elaborazione del testo.

Va subito detto che, a giudizio di chi scrive, i motivi di soddisfazione sono ben fondati e che le riserve, pure espresse, non hanno mai riguardato il “se”, ma solo il “come”, suggerendo quei correttivi o quelle integrazioni che avrebbero potuto prevenire possibili difficoltà in fase di applicazione delle nuove norme, garantendo quindi la loro maggiore efficacia.

Come è noto, prima che la legge 68 venisse promulgata, i reati contro l’ambiente – con le sole eccezioni delle due fattispecie di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e, di più recente introduzione, di combustione illecita di rifiuti, già previste quali delitti – avevano tutti solo natura contravvenzionale. Per i reati di tale natura, la legge, in termini generali, prevede pene che vanno da cinque giorni sino a un massimo di tre anni di arresto, oltre a un’eventuale ammenda, la quale può anche peraltro costituire, per fattispecie minori, l’unica pena. Si vede dunque che, anche laddove per una singola fattispecie sia prevista la pena massima irrogabile per una contravvenzione, essa non può comunque riflettere il pesante disvalore che nel sentire comune viene oggi attribuito agli atti più gravi perpetrati contro l’ambiente. Tra l’altro, alla lievità delle pene corrisponde una brevità dei termini di prescrizione dei reati, che restano pertanto di fatto impuniti. Infatti, tenendo anche conto del tempo che per questo genere di reati può spesso intercorrere tra il loro compimento e il momento in cui vengono scoperti, è assai difficile che entro tali termini i procedimenti vadano oltre il primo grado di giudizio. Oltre alla sostanziale impunità, ne consegue che l’effetto di deterrenza delle sanzioni vi è, di fatto, solo per chi di tale effetto non avrebbe forse neppure bisogno.

Queste considerazioni appaiono ampiamente sufficienti a dimostrare la necessità che ai più gravi reati contro l’ambiente venisse attribuita la natura di delitto. Essa consente infatti la previsione della pena detentiva della reclusione, ben più commisurabile alla loro gravità, oltre che di pene pecuniarie (multe) di entità più elevata. La classificazione di reati come delitti rende poi possibile il ricorso a strumenti di indagine quali le intercettazioni e l’adozione di misure cautelari che impediscano la loro reiterazione.

Inoltre, una legge che prevede che i più gravi reati ambientali siano puniti quali delitti può essere vista, per gli stessi motivi sopra accennati, anche come un perfezionamento dell’attuazione della Direttiva 2008/99/CE, che, per i reati contro l’ambiente, richiede agli Stati membri di stabilire sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive.

La legge 68/2015 ha inserito nel libro secondo del codice penale il nuovo Titolo VI-bis, “Dei delitti contro l’ambiente”, composto da dodici articoli, dove sono previste cinque nuove fattispecie delittuose: inquinamento ambientale (art. 452-bis); disastro ambientale (art. 452-quater); traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452-sexies); impedimento del controllo (art. 452-septies); omessa bonifica (Art. 452-terdecies).

I dubbi dei quali si è fatto cenno riguardano sostanzialmente la precisione con la quale talune delle suddette fattispecie sono descritte, i margini di indeterminatezza presenti, l’ampiezza delle questioni interpretative che, conseguentemente, vengono lasciate al giudice, chiamato a stabilire quando in determinati comportamenti si configuri uno dei nuovi delitti, e non, eventualmente, un reato contravvenzionale già previsto dal codice dell’ambiente (D.lgs. 152/2006) o da altre normative, o comunque una fattispecie differente.

Va peraltro detto che una riduzione degli spazi interpretativi avrebbe richiesto, in materie a contenuto tecnico quali sono quelle ambientali, formulazioni piuttosto complesse - con eventuali riferimenti a soglie numeriche e a parametri stabiliti altrove - adatte forse più a leggi di settore che a norme da inserire nel codice penale.

L’articolo 452-bis prevede il delitto di inquinamento ambientale per “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili” delle acque, dell’aria o di altre matrici.

Un deterioramento abusivo di una matrice ambientale, ad esempio delle acque, è oggettivamente cagionato anche da chi, mantenendoci nell’esempio delle acque, scarichi acque reflue industriali senza autorizzazione, ovvero superando i limiti stabiliti dall’autorizzazione stessa o dalla legge. Un tale comportamento è già sanzionato, quale reato contravvenzionale, dall’articolo 137 del D.lgs. 152/2006. Posto che la misurabilità è una caratteristica piuttosto estesa e non sembra utile per distinguere in modo chiaro situazioni differenti, a indicare la soglia tra contravvenzione e delitto resta l’aggettivo “significativo”, affidato alla percezione e alla valutazione del giudice.

Una questione analoga potrebbe porsi per il delitto di disastro ambientale, in considerazione di suoi possibili margini di sovrapposizione con i più generali delitti di disastro o di danno, già previsti dal codice penale. Va infatti al riguardo rilevato che il nuovo articolo 452-quater definisce disastro ambientale non solo un’alterazione di un ecosistema, irreversibile o eliminabile solo con onerosi provvedimenti eccezionali, ma anche - alternativamente – “l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto … per il numero delle persone offese o esposte al pericolo”, prescindendo quindi dalla sussistenza di un impatto sull’ambiente in sé o comunque dalla sua entità.

Qualche problema interpretativo potrebbe derivare anche dal fatto che quest’ultima definizione di disastro ambientale, basata sul solo numero delle persone esposte al pericolo, senza una qualificazione del pericolo stesso, potrebbe far rientrare nella fattispecie situazioni che comunemente non sono percepite alla stregua di disastri. Si pensi a uno scarico radioattivo dal camino di una installazione, di poco eccedente i livelli autorizzati. Un simile evento certamente configura un reato contravvenzionale ai sensi del D.lgs. 230/1995, ma potrebbe ora essere letto quale disastro ambientale, considerando il numero, teoricamente indeterminato, delle persone potenzialmente raggiungibili dagli effluenti radioattivi, sia pure in concentrazioni minime, e l’assunzione, su cui si basa la radioprotezione, che a ogni esposizione alle radiazioni, per quanto piccola, corrisponde una probabilità, sia pure infinitesima, di subire un danno (ipotesi di assenza di soglia nella correlazione esposizione-probabilità di danno).

Il nuovo articolo 452-sexies prevede la reclusione da due a sei anni, salvo aggravanti, per “chiunque abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività”.

Come si vede, l’articolo elenca puntualmente, forse anche con qualche ridondanza, le attività che la rubrica sottende con i termini “traffico e abbandono”, ampliando l’analoga elencazione, presente nell’articolo 260 del D.lgs. 152/2006, delle “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” e differenziandosi in questo anche dalla Direttiva 2008/99/CE, meno analitica nell’indicazione delle attività afferenti al traffico delle sostanze radioattive, anche se include invece tra le attività potenzialmente illecite la produzione, la lavorazione, il trattamento e l’uso di tali sostanze.

In contrasto con la puntualità dell’elenco, va rilevata l’imprecisione della dizione “materiale ad alta radioattività”, essendo la radioattività il fenomeno fisico, mentre le grandezza misurabile ed eventualmente classificabile come “alta” è l’attività. È probabile che questa dizione (peraltro analoga a quella presente nel citato articolo 260 del D.lgs. 152/2006, dove compare l’espressione “rifiuti ad alta radioattività”) possa essere considerata equivalente a quella corretta di “alta attività” e che pertanto l’imprecisione non debba comportare conseguenze pratiche. Più critico potrebbe invece essere il fatto che nella normativa vigente non vi è un preciso riferimento per stabilire quando un qualsiasi materiale radioattivo possa essere definito “ad alta attività” (e tantomeno “ad alta radioattività”).

Se ci si limita ai soli rifiuti radioattivi, il riferimento potrebbe essere offerto dal recente decreto ministeriale 7 agosto 2015, Classificazione dei rifiuti radioattivi, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 45, dove, tra le diverse categorie di rifiuti che vengono definite, vi è appunto quella dei “rifiuti radioattivi di alta attività”. Va tuttavia osservato che, ai fini del sistema di classificazione introdotto da detto decreto, rileva unicamente la concentrazione di determinati radionuclidi nel rifiuto e non anche la quantità del rifiuto stesso. Ora, poiché a differenza dell’articolo 260 del D.lgs. 152/2006 - che punisce il traffico di “ingenti” quantitativi di rifiuti - il nuovo articolo 452-sexies del codice penale, nel definire il delitto di “traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività”, non fa menzione della quantità di materiale che deve essere coinvolta affinché il delitto di configuri, il riferimento diretto alla categoria dei rifiuti di alta attività definita del decreto ministeriale comporterebbe, ad esempio, che il trasporto non autorizzato di un semplice campione di tali rifiuti configurerebbe un delitto, anziché, più ragionevolmente, il reato contravvenzionale già previsto dall’articolo 29 della legge 1860/1962.

Se ci si limita invece alle sole sorgenti sigillate, un riferimento preciso è dato dal D.lgs. 52/2007, dove sono puntualmente indicate le quantità dei singoli radionuclidi che debbono essere presenti in una sorgente sigillata affinché questa sia definita “sorgente ad alta attività”. Quelle indicazioni non sono però riferibili a qualsiasi altro materiale radioattivo, che non sia incapsulato, appunto, in una sorgente sigillata.

Per superare la mancanza di un riferimento di validità generale, in Senato, in sede di esame del disegno di legge, era stata presentata un’apposita proposta di modifica (emendamento 1.285), che peraltro, nel merito, indicava valori di attività piuttosto bassi, corrispondenti, in pratica, alle soglie di ingresso nel sistema regolatorio della radioprotezione indicate dalle direttive comunitarie, poco adatti quindi a definire i “materiali ad alta attività”. In ogni caso, la proposta di modifica è stata ritirata e trasformata in un ordine del giorno, poi approvato dal Senato, che “impegna il Governo ad affrontare e risolvere le problematiche di cui all’emendamento 1.285”.

Un problema interpretativo potrebbe forse ravvisarsi anche per l’omessa bonifica. Il nuovo articolo 452-terdecies punisce “chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi”. La domanda che ci si può porre è se, ed eventualmente quando, una difformità rispetto al progetto di bonifica, ovvero un ritardo sui tempi di attuazione, possano configurare la nuova fattispecie delittuosa.

Come si è detto, questioni quali quelle qui accennate, e anche altre, erano state messe a fuoco già in fase di discussione del disegno di legge, in particolare dopo l’approvazione del Senato che ha preceduto la discussione finale alla Camera, ma è forse comprensibile che in quell’ultima sede si sia preferito evitare di introdurre nuove modifiche che avrebbero comportato un ulteriore rinvio al Senato, con effetti non prevedibili sui tempi di approvazione.

Le questioni passano quindi ora alla magistratura, e sarà interessante vedere come questa interpreterà le nuove norme.

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