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L’ILVA CHIUDE?

La Giustizia e l’Ambiente nel Deserto

di: Giuliano Cazzola
Per tornare sull’argomento dell’ILVA di Taranto (trattato dall’Astrolabio, fin dal 2012, per la vicenda in se e per i suoi aspetti emblematici), abbiamo deciso di rivolgerci ad un sindacalista e politico di grande cultura, non ambientalista di estrazione ma capace di vedere la realtà, i paradossi della politica e della giustizia e di distinguere una seria politica ambientale da un ambientalismo di maniera, ideologico e  autolesionistico sia per l’ambiente che per l’economia.


‘’Il diritto penale totale: punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi’’ (Il Mulino) è il lepidus libellus di Filippo Sgubbi, già professore di diritto penale in importanti Atenei italiani. Di questo scritto, in tutto 88 pagine, hanno parlato tra gli altri Sabino Cassese su Il Foglio e Angelo Panebianco in un editoriale del Corriere della Sera. Sgubbi non si limita a sottolineare il predominio assunto dalla magistratura sulle altre funzioni dello Stato di diritto, ma denuncia una vera e propria trasformazione sia del giudizio che dello stesso diritto penale, coinvolto in un’inquietante prospettiva in cui la giurisprudenza non diventa, soltanto e impropriamente, fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo.

‘’L’apparato penale –spiega Sgubba – costruito per definire l’area dell’illecito e per legittimare l’applicazione delle sanzioni, diventa il supporto per l’adozione di scelte decisionali di governo economico-sociali’’. La ‘’distorsione istituzionale’’ viene così spiegata: ‘’la decisione giurisprudenziale diventa – secondo l’autore – una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente’’.

Ma la critica (‘’le norme penali così assumono un ruolo inedito. Sono fattori non di punizione, ma di governo’’) non si ferma qui. ‘’Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – prosegue Sgubba – la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari’’.

Filippo Sgubbi non cita degli esempi concreti, con un nome e un cognome o con una ditta; e io non intendo attribuirgli giudizi che non ha espresso. Ma nelle sue considerazioni emerge il profilo del caso ex Ilva dove, a mio avviso, è palese che i provvedimenti cautelari assunti dalla magistratura di Taranto, nei confronti di quello stabilimento, sono entrati nel merito dell’attività imprenditoriale sulla base di criteri discrezionali ed arbitrari ed hanno inciso sui diritti dei terzi. La magistratura ha sicuramente contribuito a mettere in moto, per lo stabilimento di Taranto e l’area circostante, un processo di risanamento che sonnecchiava colpevolmente, pur essendo enormi e gravi i problemi da risolvere.

È probabile, infatti, che senza la mano dura dei pm, una serie di misure (il decreto Taranto, l’aggiornamento dell’Autorizzazione Integrata Ambientale rispetto alle migliori tecnologie indicate in sede Ue, lo stesso impegno ad investire nel risanamento ambientale) non sarebbero mai state adottate in modo tanto sollecito (anche se poi ne è stata impedita l’esecuzione). Ma non è comprensibile (né tanto meno condivisibile) condannare a morte una realtà produttiva viva e vitale, per poterla risanare. Il broccardo ‘’Fiat iustitia pereat mundus’’ è soltanto un paradosso fondamentalista.

Non ha molto senso essere fieri di stare al secondo posto in Europa come industria manifatturiera, e pretendere, nello stesso tempo, di chiudere le fabbriche perché le loro emissioni fanno male alla salute. Un ambiente sano ed incontaminato era soltanto quello del Giardino dell’Eden.  Una linea di condotta discutibile della magistratura inquirente ha dato avvio al declino inarrestabile di un’impresa sana e produttiva (alla quale, peraltro, era stato riconosciuto - da parte delle autorità competenti - di aver adempiuto alle norme di sicurezza ambientale previste dalla legge secondo i parametri europei). Ma allora i sindacati stessi erano rimasti adescati da una linea ‘’politicamente corretta’’. Succubi del mito della infallibilità delle procure, si erano guardati bene dal mettere in discussione i loro atti. Poi costretti a misurarsi con l’intransigenza bucolica degli ambientalisti d’antan, i dirigenti sindacali – anche quelli più radicali – sono andati in crisi, mostrando un’enorme coda di paglia, che li ha resi incapaci di spiegare che produrre l’acciaio non è come coltivare le rose (anche se, in floricultura, bisognerebbe stare in guardia nell’uso dei fertilizzanti) o confezionare caramelle e uova pasquali. 

La tutela della salute è l’obiettivo principale delle direttive europee e delle leggi nazionali che stabiliscono i limiti alle emissioni inquinanti delle automobili, delle centrali termoelettriche, degli impianti siderurgici, della chimica e di tutte le altre attività. È ormai da 30 anni che le tecnologie di produzione industriale nella UE sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma, nello stabilire questi parametri, gli obiettivi di risanamento ambientale non possono non essere compatibili con altre esigenze riguardanti i diversi settori produttivi, come i problemi di ammortamento degli impianti, di risorse da investire, di coordinamento tra i diversi Paesi. Soprattutto, i sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere considerati in regola.

Per comprendere questo fondamentale concetto, messo in discussione a Taranto, basta ricordare che l’industria automobilistica europea è stata obbligata, in circa 30 anni, a cambiare drasticamente le tecnologie motoristiche, al pari dell’industria di raffinazione per quanto riguarda i combustibili con l’obiettivo di tutelare l’ambiente e la salute. Ma il cambiamento è proceduto per gradi sulla base di regole uniformi che divenivano di volta in volta non l’indicatore di una sicurezza assoluta, ma uno standard sostenibile e progressivo a cui attenersi in un quadro di certezza del diritto. 

Mettiamo il caso che, in un giorno qualsiasi, la Procura di una grande città si accorga – osservando i dati delle centraline che rilevano l’intensità delle polveri sottili nell’aria – che il livello di inquinamento ha superato (come avviene sovente) gli standard ritenuti compatibili (si tratta pur sempre di condizioni che non fanno certo bene alla salute anche quando sono conformi a limiti considerati accettabili sulla base delle regole vigenti). E che, in conseguenza di tali constatazioni, il pm emetta un’ordinanza di sequestro di tutte le auto quali corpi del reato (come accadde ai prodotti finiti dell’ex Ilva per un valore di 1,5 miliardi), comprese quelle in regola con le ultime prescrizioni europee, perché anch’esse inquinano seppur con minore intensità. E’ evidente che, dopo un  provvedimento siffatto, sorgerebbero delle polemiche destinate a far scendere in campo le istituzioni e quant’altro, dando vita ad una escalation con quella  procura, la quale, ad un certo punto  potrebbe arrivare al sequestro, sine die, degli impianti della Fiat/FCA, almeno fino a quando, a suo esclusivo avviso,  le tecnologie usate non fornissero la garanzia – secondo parametri del tutto discrezionali e arbitrari - che le emissioni delle auto fossero immuni da effetti cancerogeni (come  accade oggi). Con tutto il rispetto dovuto all’ordine giudiziario, una tale eventualità sarebbe ritenuta un atto di ordinaria follia.

Ma, onestamente, è poi così grande la differenza tra questa ipotesi di fantagiustizia e quanto è accaduto a Taranto per il caso Ilva? Nel contesto della globalizzazione la possibilità o meno di saccheggiare il territorio (al pari di quella di sfruttare la forza di lavoro) è diventata una componente ‘’spuria’’ di quella corsa alla competitività che non ha più rispetto di tutto quanto può diventare un costo, un vincolo o un impedimento. Sulla base di tali considerazioni e di tante altre di analogo tenore, è stato facile, a suo tempo, schierarsi con i pm che hanno disposto la chiusura delle aree a caldo dell’Ilva e ordinato l’arresto di alcuni dirigenti. Ma è arduo sottrarsi ad un’assillante domanda: a chi si renderebbe giustizia in un deserto?  Tanto più che nei provvedimenti di sequestro non si volle tener conto delle migliorie apportate ai cicli produttivi negli anni precedenti.

Ma non è la prima volta che difesa del lavoro e protezione dell’ambiente entrano in conflitto. È stato così, più o meno, in tutti i centri disseminati per l’Italia – da Marghera a Genova, da Piombino a Ferrara, a Ravenna, a Bagnoli, a Priolo, a Gela fino alla Sardegna – dove, tra gli anni 60-70 del secolo scorso, era stata dislocata l’industria di base siderurgica e chimica. E, alla fine, le istanze radicalmente ambientaliste (grazie anche ai processi di crisi industriale non solo in Italia, ma in gran parte della Europa) hanno avuto una facile vittoria di Pirro. Le ciminiere che sfidavano il cielo sono state spente, gli impianti che occupavano il territorio per decine di Kmq sono diventati esempi di archeologia industriale. Laddove sorgevano fabbriche ora si estendono ipermercati o sono sorti alveari abitativi. I grandi dinosauri sono morti. Ma ora il Paese è più povero e il lavoro più precario.

In queste vicende hanno pesato travolgenti trasformazioni economiche derivanti dalla nuova distribuzione internazionale del lavoro, salvo accorgerci adesso dell’importanza strategica dell’industria di base che, proprio perché inquinava, è stata delocalizzata nei paesi emergenti. Ma c’è di più. Esiste in molte circostanze, da noi, l’atteggiamento incoerente di chi vorrebbe sviluppo, lavoro e benessere, ma ne rifiuta i corollari inevitabilmente negativi. E’ il caso del rifiuto ideologico dell’energia nucleare oppure delle sollevazioni popolari contro i termovalorizzatori, gli inceneritori, le discariche controllate. Come se si prendessero di mira i processi produttivi necessariamente sottoposti, proprio per la loro alta dose di rischio, a protocolli di sicurezza, nello stesso momento in cui si consente all’economia sommersa – magari avvalendosi di braccia straniere - di provvedere   brutalmente ad assicurare quanto si nega all’economia emersa e regolare.

Produrre l’acciaio, poi, non è come lavorare (con tutto il rispetto) all’Agenzia del Territorio o a Poste Italiane.  Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni si moriva di fame, di pellagra, di malaria, magari di influenza (ricordate la c.d. Spagnola che seminò milioni di vittime nel mondo?) ad un’età in cui, oggi, i giovani si pongono il problema se è venuto il momento di lasciare la casa paterna e mettere al mondo dei figli. Adesso, anche le patologie sono differenti.

Ma allora come oggi, vi è sempre un saldo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive. Al momento del sequestro, l’Ilva non era solo il più grande stabilimento siderurgico d’Europa; i suoi laminati servivano tutta l’industria manifatturiera nazionale. E che dire di Taranto?  L’acciaieria rappresentava il 75% del Pil di quel territorio e il 76% della movimentazione del porto (uno scalo su cui vi era e vi è un forte interesse dei cinesi per farne il principale hub per le loro merci nell’Europa meridionale). Per il solo approvvigionamento delle materie prime dell’Ilva (il suo parco geo-minerario è di ben 78 ettari) approdavano nel porto, annualmente, ben 1300 navi. L’85% dei prodotti Ilva transitava per il porto. In sostanza, tra occupazione diretta ed indiretta, 20mila famiglie, solo a Taranto, dipendevano e ancora dipendono dall’Ilva.

Se questa era la fotografia della situazione, vi era la possibilità di aprire prospettive nuove per quell’area, alla luce del protocollo d’intesa del 26 luglio 2012, degli stanziamenti pubblici previsti (336 milioni) per la bonifica ambientale e degli impegni assunti dal gruppo, in un rapporto di collaborazione con le autorità nazionali e locali e con le organizzazioni sindacali. Si è voluto incamminarsi, invece, in una ‘’terra di nessuno’’ per sette anni, con la cacciata della famiglia Riva, i commissariamenti e la guerriglia della procura contro i provvedimenti votati dal Parlamento. Un’atroce lotta tra la condanna ad una morte lenta e l’istinto di sopravvivenza di quella comunità di lavoro, sola perché lasciata sola (mi sono chiesto in questi giorni i motivi del silenzio delle istanze confederali locali).

Poi è arrivata – contrastata, osteggiata – l’intesa con Arcelor-Mittal. Il ministro Luigi Di Maio fece di tutto per farla saltare (chi non ricorda le dichiarazioni alla Camera sulle illegalità dell’operazione, l’evocazione di un ‘’delitto di Stato’’) fino alla pugnalata alle spalle, nonostante l’esplicito avvertimento del vertice dell’azienda, della rimozione del c.d. scudo penale. Quanto tale misura fosse indispensabile in quella situazione lo ha spiegato meglio di ogni altro un bravo sindacalista come Marco Bentivogli: “Qualcuno investirebbe 3,6 miliardi – ha evidenziato il leader della Fim-Cisl – in uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo? In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?’’.

Nei confronti di questo stabilimento non ci siamo fatti mancare nulla. Siamo arrivati al punto della discesa in campo di due procure: quella di Taranto e quella di Milano (che si considera una sorta di procura nazionale, abilitata ad intervenire in ogni dove). La società ha provato a spiegare il suo ‘’non possumus’’: "I provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto" - è scritto nel comunicato con cui veniva annunciato il ritiro - "obbligano i commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 - termine che gli stessi commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare - pena lo spegnimento dell'Altoforno numero 2." Secondo la multinazionale franco-indiana, le suddette prescrizioni "dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altiforni dello stabilimento di Taranto". Ma tale spegnimento "renderebbe impossibile per la Società attuare il suo piano industriale, gestire lo stabilimento di Taranto e, in generale, eseguire il Contratto".

Alla fine Arcelor Mittal si è trovata nella stessa posizione di chi viene squartato da quattro cavalli legati ognuno agli arti inferiori e superiori, costretti a correre in direzioni opposte. Al management dell’ex Ilva è stato ordinato di spegnere e contemporaneamente di lasciare in funzione l’altoforno più importante dello stabilimento. In sostanza, di rispondere penalmente sia della continuità del funzionamento che della chiusura degli impianti. Dopo alcune settimane di polemiche il dialogo è ripreso dal triangolo governo-società-sindacati. Ma è sorto subito un problema. Arcelor-Mittal sostiene che il piano non può più essere applicato come previsto dall’accordo. I sindacati – che fanno il loro mestiere – si sono opposti alla riduzione degli organici e al ridimensionamento degli obiettivi produttivi. Che cosa si aspettavano da una fabbrica ferita a morte, in sofferenza da anni, con un ciclo produttivo che non è stato in grado di sopportare, senza gravi danni (difficilmente recuperabili), gli interventi imposti, nel tempo, dalla procura di Taranto per quanto riguarda gli altiforni? 

I sindacati trattano processi di riconversione produttiva fin da quando nell’immediato dopoguerra dovettero affrontare il cambiamento di un apparato industriale mortificato dall’autarchia e dall’economia di guerra, per inserirlo sui mercati internazionali che allora chiedevano beni di consumo durevoli. E’ tanto strano che un’acciaieria che dal 2012 vive come un malato perennemente in sala di rianimazione, con le Erinni giudiziarie accanto al capezzale, non presenti qualche problema a ripartire?

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