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di: Giovannangelo Montecchi Palazzi
I migranti economici sono l’aspetto quantitativamente più rilevante e durevole di un fenomeno migratorio epocale. L’unica strategia di lungo periodo per mitigarlo è cercare di accelerare lo sviluppo economico dei meno avanzati tra i Paesi in Via di Sviluppo. Il buon successo complessivo delle MDGs - Millennium Development Goals dimostra che non si tratta di una sfida impossibile e che a tal fine l’APS - Assistenza Pubblica allo Sviluppo può dare il suo contributo. Ma perché possa farlo con efficacia è indispensabile aumentarne il volume, snellirne le strutture e aggiornarne gli strumenti.


Secondo il Development Assistance Committee dell’OCSE, per APS si intendono i doni e i crediti di aiuto aventi un elemento dono non inferiore al 30%, concessi ai PVS, Paesi in Via di Sviluppo, da altri Stati o da organizzazioni multilaterali a fini strettamente civili.

I flussi netti di APS si aggirano intorno ai 140 miliardi di dollari l’anno e, in media, rappresentano meno del 10% dei flussi finanziari verso i PVS [1] ma costituiscono il “nocciolo duro” sul quale far leva per gli interventi di assistenza più ardui, quelli difficilmente finanziabili con altri strumenti meno agevolati [2] oppure che necessitano di una quota di APS in funzione catalizzatrice.

L’APS, sia detto senza infingimenti, è stato ed è anche uno strumento per perseguire, accanto a scopi umanitari, finalità geopolitiche dei Paesi donatori: nell’immediato secondo dopoguerra per fronteggiare la minaccia comunista in Europa, quindi per accompagnare il processo di decolonizzazione e, nel contesto della “guerra fredda”, contrastare l’influenza dell’URSS nei Paesi emergenti, poi caduto il muro di Berlino, per facilitare la transizione verso l’economia di mercato dei Paesi ad economia centralizzata e infine, alla luce delle crescenti sensibilità ambientali, per coniugare ambiente e sviluppo umano, compito peraltro non facile per le difficili scelte etiche che ciò sovente comporta.

Va anche detto che 140 miliardi di dollari l’anno sono insufficienti a fronte delle dimensioni e molteplicità dei problemi da affrontare, tanto più che, come si cercherà di dimostrare a seguito, sono mal distribuiti geograficamente e mal impiegati. 

Ora, per i Paesi avanzati, specie europei occidentali, la nuova sfida epocale è rappresentata dalle migrazioni per motivi economici ma l’APS l’ha recepita tardi e in misura tuttora limitata. Basti ricordare che solo 15 miliardi di dollari su 140, poco più del 10%, sono stati destinati ad essa, anche se tale percentuale sembra crescere rapidamente.

Il termine “epocale” è stato usato dal Presidente Mattarella rivolgendosi, in Uruguay, a discendenti di emigrati italiani.  E’ possibile che, nell’utilizzarlo, il Presidente avesse a mente le dimensioni demografiche del fenomeno riferite al contesto della UE,  la sua prevedibile lunga durata e le sue conseguenze politiche.

Quanto alle dimensioni demografiche, nella UE 28 siamo 507 milioni, dopo la Brexit saremo meno di 450 milioni.  Per contro l’Africa ha 1.250 milioni di abitanti, di cui oltre 800 a Sud del Sahara, che nel 2050 saranno circa 2.500 milioni.  Se aggiungiamo buona parte del Medio Oriente e dell’Asia ed un pizzico di Sud America arriviamo già oggi ad una massa di oltre 2 miliardi di persone indigenti che vedono nell’emigrazione nella UE lo strumento e la speranza di una vita migliore per loro e, soprattutto, per i loro figli.  In particolare, il Mediterraneo è sempre più un “fronte” demografico, oltre che culturale, economico e sociale. Basti considerare che nel 1950, i 2/3 della popolazione dell’area viveva sulla sponda Nord, oggi le proporzioni si sono invertite.

Paradossalmente, ciò avviene contestualmente ad un’evoluzione anch’essa epocale e senza precedenti nella storia dell’umanità. Grazie ad un insieme di fenomeni che partono da lontano e vanno sotto il nome di globalizzazione, negli ultimi venti anni, le disuguaglianze economiche tra Paesi si sono ridotte perché i PVS sono cresciuti e continuano a crescere più velocemente dei Paesi avanzati.  In meno di un ventennio, l’indice Gini di ineguaglianza si è ridotto da 0,54 a 0,45 [3].  Per usare un altro indicatore, nel 1948,  il mondo aveva 3 miliardi di abitanti di cui oltre la metà viveva in povertà assoluta [4].  Nel 2015, il numero i questi ultimi si era ridotto a 836 milioni a fronte di una popolazione di 7,3 miliardi.   Nell’arco di due generazioni la popolazione mondiale si è più che raddoppiata, ma il numero dei poveri si è dimezzato in valori assoluti e ridotto da più del 50% a 11,4% in percentuale.

Tutto bene dunque? Niente affatto! Non solo perché le distanze restano ancora grandi, ma perché la globalizzazione ha anche prodotto due fenomeni di segno opposto: incentivo all’emigrazione nei PVS, rigetto dell’immigrazione nei Paesi avanzati. Nel 1948, l’orizzonte cognitivo di un coltivatore analfabeta di teff in Etiopia piuttosto che di riso nell’Annam non si estendeva oltre l’ambito del suo sperduto e isolato villaggio.  Oggi i suoi nipoti, grazie alle comunicazioni, sanno che esiste un altro mondo migliore e, grazie alla globalizzazione, possono racimolare, sia pure a gran fatica, di che pagare gli scafisti libici o le “teste di serpente” asiatiche. La spinta ad emigrare si è fatta molto più forte.

Per contro, nei Paesi avanzati, una serie di fenomeni concomitanti - una globalizzazione mal gestita, la rivoluzione informatica e tecnologica, un decennio di crisi economica, l’invecchiamento della popolazione - hanno non solo resuscitato lo spettro della povertà tra gli operai resi ridondanti dall’evoluzione tecnologica  e “stretti nella morsa tra salari orientali e costi occidentali”, come ammoniva Tremonti nel 1995, ma hanno anche suscitato nel ceto medio lo spettro della retrocessione sociale.  Di qui, la forte e diffusa domanda di protezione che si è tradotta in fenomeni come la Brexit, l’elezione di Trump, il 20% dei voti francesi a Marine Le Pen, le derive nazionaliste di Austria, Polonia e Ungheria e, a livello accademico, l’acceso dibattito sulle disuguaglianze crescenti all’interno dei Paesi avanzati.

In tale contesto sarebbe ingenuo voler negare che i migranti, specie se culturalmente molto diversi, vengano percepiti come una minaccia

- quali concorrenti sul mercato del lavoro [5],

- se islamici (circa il 30%), perché portatori di valori diversi  difficilmente conciliabili coi nostri [6] se non addirittura come terroristi potenziali anche se in termini statistici la minaccia reale è risibile,

- tutti come delinquenti potenziali [7].

Secondo una stima della Caritas in Italia nel 1992 i nati all’estero erano 925.000.  Oggi sono 5.900.000 (9,7% dei residenti) di cui, secondo l’Istituto Leone Moressa, circa 4 milioni extracomunitari.  Lo stesso Istituto prevede che, nel 2050, saranno 12.573.673, oltre 6milioni in più, pari al 19,8% dei residenti.  Sempre secondo il medesimo istituto, in Europa gli stranieri sono 34 milioni.  Se, come nel caso italiano, il loro numero dovesse raddoppiare se ne aggiungerebbero 34 milioni. Dunque, cercando di interpretare il pensiero del Presidente Mattarella, ci troviamo di fronte ad un fenomeno epocale per dimensioni.

Ma si tratta di un fenomeno epocale anche per durata perché la causa di gran lunga principale e durevole delle emigrazioni è economica. Secondo lo UNHCR, l’ente dell’ONU che si occupa dei rifugiati, i migranti al mondo sono 247 milioni.  Di questi solo 22,5 milioni, meno del 10%, sono rifugiati per ragioni politiche. Oltre il 90% è costituito da migranti economici.  Secondo una stima del Presidente francese Macron riferita alla Unione Europea, i rifugiati rappresentano solo il 20% del totale.  La pressione migratoria precedeva di molto le crisi politiche attuali in Libia, Siria, Iraq ed è destinata a permanere a lungo, come minimo per decenni, anche quando tali crisi saranno superate o contenute.

Nel suo discorso in Uruguay, il Presidente Mattarella, certamente consapevole delle conseguenze politiche, ha anche asserito che l’immigrazione “va governata con senso di responsabilità, con saggezza, ma anche con intelligenza”.   Tradotto in termini schietti, a parere di chi scrive, ciò significa regolamentare, controllare. Lo scorso anno Marion Le Pen, rispondendo ad un giornalista ha affermato che “non si tratta di gettare ponti e neppure di costruire muri, ma di creare porte”.   Un aforisma assai efficace e rischioso se lasciato in esclusiva a personaggi come le due Le Pen (Martine e Marion), Mélenchon, Trump, Orban, Kaczynski, Strache, Salvini o Grillo.

Fatta questa lunga premessa, quale strategia per affrontare il problema? Preso atto che la causa principale e durevole delle migrazioni è economica, la risposta è accelerare lo sviluppo economico e sociale dei PVS, compito non facile, ma neppure impossibile. Al riguardo sovvengono due considerazioni.

La prima è fin troppo ovvia: per chiunque debba affrontarla l’emigrazione è un trauma.  Per arrestarla, non è quindi necessario livellare i redditi tra i Paesi. Come ben dimostrato dall’esperienza italiana del secondo dopoguerra [8], basta ridurre i divari e dare una speranza di miglioramento. Secondo alcune stime, la spinta a emigrare viene meno quando il PIL “pro capite” raggiunge i 7.000 / 9.000 € l’anno.

La seconda considerazione riguarda i buoni risultati ottenuti nel perseguire le “MDGs - Millennium Development Goals”, gli 8 obiettivi di sviluppo per il 2015 fissati dall’ONU nel 2000 [9 ], tra i quali spicca il raggiungimento dell’obiettivo di dimezzare la povertà assoluta. Il successo delle MDGs, che la tendenza dei media a propalare solo cattive notizie ha passato alquanto sotto silenzio, è indubbiamente assai incoraggiante ma molto resta da fare: l’indice Gini di disuguaglianza tra Paesi è 0,45, quello che si registrava in Italia nel primo dopoguerra quando i nostri connazionali emigravano in massa, il PIL “pro capite” dell’Africa sub-sahariana è di  3.500 euro l’anno.

Chi scrive, pur avendo lavorato nel contesto dell’APS in Italia e all’estero, ritiene che il contributo maggiore allo sviluppo dei PVS, specie negli ultimi decenni, sia stato fornito dalla globalizzazione dell’economia. Tuttavia, se non vogliamo rassegnarci ai tempi lunghi e agli inevitabili esiti ineguali della globalizzazione, l’APS resta lo strumento per affrontare le situazioni e i progetti più ardui.

Riconosciuto il ruolo dell’APS, va tuttavia detto con franchezza che si dovrebbe fare di più e farlo meglio. Per ciò che riguarda il “quanto” esiste un consenso unanime che 140 miliardi di dollari l’anno siano del tutto insufficienti a fronte dei molteplici compiti da affrontare [10].  Unanimità che, però, non si traduce in fatti.  A suo tempo, i Paesi OCSE si sono sì impegnati a contribuire con l’1% dei rispettivi PIL  ma, di fatto, da anni, il contributo medio è pari allo 0.3% [11].

Per quanto riguarda il “meglio” esiste ormai una letteratura assai vasta che vede contributi di personaggi diversi quali Gunilla Carlsson, Ministro svedese per la cooperazione allo sviluppo, il suo omologo inglese Andrew Mitchell, i premio Nobel Muhammad Yunus, Dambisa Moyo autrice di un “best seller” dal titolo significativo “Dead aid”, Paul Romer capo economista della Banca Mondiale.

In questa sede, tra i molti argomenti possibili, basti accennare a quattro tra i più rilevanti.

In primo luogo la necessità di far chiarezza su che si intenda per PVS. Su 193 Stati membri dell’ONU, ben 145 sono classificati PVS dall’OCSE.  Vero è che sono state introdotte 4 sottocategorie in base al reddito (“Least Developed Countries”, “Low Income Countries”, “Lower Middle Income Countries”, “Upper Middle Income Countries”) e sono stati posti limiti alla concessione di doni e crediti alle due categorie superiori ma, nonostante ciò, queste ultime ricevono ancora il 50% dei flussi di APS. Continuare a considerare PVS Paesi come Argentina, Brasile, Cile, Cina, Turchia ecc. pare discutibile soprattutto perché distoglie fondi ed attenzione dai Paesi meno avanzati, quelli che ne hanno più bisogno.

In secondo luogo, la pletora degli attori. Da un’indagine della banca Mondiale risultano 33 Paesi donatori, 40 agenzie dell’ONU, 26 banche multilaterali di sviluppo, 280 agenzie bilaterali, 250 fondi di esecuzione più un numero imprecisato di ONG.  Il tutto con qualcosa come 500.000 dipendenti.  Facile immaginare le sovrapposizioni, la mancanza di coordinamento, lo spreco di risorse.  La Banca Mondiale ha definito la situazione uno “spaghetti bowl”.

In terzo luogo, la farraginosità delle procedure. Non vi è dubbio che, specie per progetti infrastrutturali, si debbano condurre attente istruttorie e analisi di costi/benefici, ma la complessità per non dire la leziosità delle istruttorie ha raggiunto livelli al limite del grottesco.  Tra l’identificazione di un progetto e la prima erogazione  trascorrono non meno di quattro anni  [12].

In quarto luogo il mancato aggiornamento degli strumenti. Secondo il Ministro svedese della Cooperazione, Gunilla Carlsson, idee e strumenti sono rimasti sostanzialmente quelli concepiti 30 o 40 anni or sono e debbono essere adattati il mondo attuale. A titolo di esempio, tra i nuovi strumenti non sviluppati che potrebbero fruire del sostegno dell’APS in fase di avviamento, due - l’inclusione finanziaria delle rimesse e le garanzie mutualistiche -che coinvolgono i migranti, le PMI e le microimprese potrebbero beneficiare di valide esperienze italiane. Le rimesse dei migranti verso i PVS di origine che transitano attraverso canali ufficiali si aggirano sui  440 miliardi di dollari l’anno (638 miliardi prima della crisi), pari a tre volte i flussi netti di APS.  Non è dato sapere a quanto ammontino quelle che transitano per canali informali/illegali.  Le stime variano da 35% a 75%. Si tratta di cifre rilevanti indubbiamente utili, in particolare alla riduzione della povertà.  Si è scritto e discusso molto, ma finora combinato ben poco, per canalizzare in parte detti flussi dal semplice consumo domestico verso investimenti produttivi e per agevolare la loro inclusione nei sistemi finanziari ufficiali dei PVS affinché abbiano un effetto moltiplicatore maggiore sul PIL. Un convegno promosso dalla Banca Mondiale e dall’IFAD è giunto alla conclusione che l’inclusione delle rimesse nei canali finanziari ufficiali avrebbe nei PVS effetti economici positivi superiori a quelli prodotti dall’APS ($ 140 miliardi) e degli investimenti diretti ($ 500 miliardi) sommati. Il problema è che è difficile farlo.

In questo ambito l’esperienza italiana, passata e presente, potrebbe venire in aiuto.

A suo tempo, le rimesse degli emigrati furono importanti anche per l’Italia ai fini della bilancia dei pagamenti e come fonte di raccolta in valuta per le banche.  Per far sì che i risparmi, anche modesti, di tanti nostri connazionali confluissero in Italia furono adottate misure semplici, ma a largo spettro. Ai migranti fu consentito di mantenere conti in valuta estera (per metterli al riparo da svalutazioni della lira) e offerti interessi un po’ più elevati. 

Poco o nulla è stato fatto per promuovere tali semplici esperienze nei PVS e ancor meno per moltiplicare una più recente e moderna “primogenitura” italiana: l’accordo tra Bancoposta e Postes Finances del Senegal che, in sostanza, permette ad un senegalese del distretto conciario di S. Croce all’Arno di fruire contemporaneamente dei servizi di entrambe le organizzazioni.  Può parere banale, ma nei PVS la penetrazione delle banche è ridotta e pressoché nulla nei quartieri poveri e nelle aree rurali mentre esistono ancora sistemi postali che languiscono perché antiquati e superati dai canali informali. Ad essi le Poste Italiane, che vantano una “leadership” tecnica indiscussa, potrebbero insufflare nuova vita con l’obiettivo di far sì che il risparmio postale possa svolgere un ruolo analogo a quello svolto in Italia [14].

Un altro strumento tutto sommato trascurato nel contesto degli aiuti allo sviluppo sono le garanzie creditizie, con particolare riferimento alle garanzie mutualistiche, quelle concesse da consorzi in favore delle banche che finanziano le aziende loro associate, per lo più PMI. In questo settore l’Italia è preminente.  Secondo la AECM, l’associazione che raggruppa 41 enti privati e pubblici europei di prestatori di garanzie, nel 2016 Assoconfidi era responsabile del 39,64% degli oltre 85 miliardi di euro di garanzie in essere prestate dai suoi associati.

Lo strumento d’intervento pubblico italiano in favore delle PMI e delle microimprese è il Fondo Centrale di Garanzia presso il Ministero dello Sviluppo Economico. Nel 2016 ha garantito finanziamenti per 16,7 miliardi di euro in favore di 74.818 aziende con una percentuale di insolvenze di poco superiore al 2%. Purtroppo, a chi scrive non risulta che siano stati effettuati seri tentativi per trasferire nei PVS questo strumento pur noto e collaudato [15].

 


Note:

[1] Gli altri flussi sono costituiti essenzialmente da investimenti diretti (circa $ 500 miliardi), investimenti di portafoglio in obbligazioni e azioni (circa $ 250 miliardi), prestiti vari compresi i prestiti a condizioni non APS delle banche multilaterali di sviluppo (circa $ 250 miliardi) e rimesse emigrati (circa $ 440 miliardi, ma oltre 600 prima della crisi economica).

[2] Ad esempio non è ancora chiaro a quali condizioni verranno concessi i $ 100 miliardi annui promessi dai Paesi avanzati ai PVS per aiutarli (in piccola misura) a far fronte agli impegni assunti in sede di CoP21. Tuttavia le difficoltà nel reperire tali fondi fanno supporre che non si tratterà di finanziamenti agevolati a condizioni APS.

[3] In Italia per avere una pari riduzione di 9 punti (da 0,504 a 0,416) ci sono voluti gli 87 anni intercorsi dall’Unità (1861) al 1948, oppure (da 0,416 a 0,33) i 50 anni intercorsi tra il 1948 e la fine del secolo che comprendono gli anni del “miracolo economico” e dello sviluppo del “welfare state”.

[4] Ora definita come un reddito di $ 1,25 al giorno in termini monetari

[5] Secondo il sociologo Luca Ricolfi, dal 2008 al 2016 gli occupati stranieri sono aumentati di 800.000 unità, gli italiani diminuiti di 1.200.000.

[6] Ora è di moda riferirsi al libro di Samuel Huntington “Clash of civilizations” del 1993.  Ma già nel 1985 il grande storico francese Fernand Breguel in “Mediterraneo” usava termini come “scontro di civiltà”, “Islam contro-Occidente”, “profonda contrapposizione” e segnalava come le civiltà siano frutto di sedimentazioni secolari, incentrate su religioni, che evolvono lentamente.

[7] Il loro tasso di carcerazione è nove volte quello degli italiani, mentre secondo la Fondazione David Hume in Europa il loro tasso di criminalità è più di quattro volte quello dei nativi.

[8] A partire dall’Unità, dal nostro Paese sono emigrati circa 30 milioni di persone.  Nel 1952, chi scrive bambino assisté all’arrivo in Argentina delle ultime navi di emigranti.  Ultime perché di lì a poco il “miracolo economico” incipiente fece cessare l’emigrazione oltre oceano e quando si consolidò, negli anni ’60 e ’70, anche le migrazioni verso Paesi europei.

[9] Molto sinteticamente, gli 8 obiettivi e i risultati sono: 1- dimezzare il numero di coloro che vivono in povertà assoluta, obiettivo raggiunto con la diminuzione da 1,9 miliardi di poveri  nel 1990 a 836 milioni nel 2015; 2- educazione elementare universale, obiettivo non raggiunto, ma la frequenza è aumentata da 83% a 91%; 3- parità di genere nelle scuole elementari raggiunta nei 2/3 dei PVS; 4- mortalità infantile ridotta di oltre il 50% contro i 2/3 sperati; 5- mortalità materna ridotta di quasi il 50% contro i 2/3 sperati;  6- riduzione del 40% delle infezioni per AIDS, meno 62 milioni di morti per tubercolosi e meno 6,2 milioni per malaria;  7- riduzione del 50% delle persone senza acqua potabile raggiunta nel 2010 con l’accesso ad essa di circa 2,6 miliardi di persone;  8- aumento dell’APS del 66% in termini reali raggiunto nel 2013. Le MDGs sono state rimpiazzate da 17 SDGs - Sustainable Development Goals articolate in ben 169 obiettivi specifici da raggiungere entro il 2030.

[10] Basti solo osservare che per fornire elettricità a circa 645 milioni di africani che ne sono privi, si stima sia necessario investire $ 100 miliardi l’anno.

[11] Il contributo italiano è pari allo 0,016%.

[12] Tra i tanti esempi negativi possibili, se ne riporta uno citato dal premio Nobel Muhammad Yunus ed una esperienza personale.  Ne “Il banchiere dei poveri” Yunus cita un progetto della Banca Mondiale di riduzione della povertà nelle isole Negros nelle Filippine: dopo 5 anni e centinaia di migliaia di dollari spesi in missioni e consulenze non era stato ancora erogato 1 $.  Nel 2015 in un convegno a Roma un funzionario italiano della Banca Africana di Sviluppo si vantò di aver impiegato due anni solo per stabilire dove porre tralicci di una linea di trasmissione …. nel continente meno densamente popolato al mondo ove 645 milioni di abitanti sono del tutto sprovvisti di elettricità e ove si stima che le malattie respiratorie causate dall’uso domestico di biomasse provochino 600.000 morti premature l’anno.

[13] La Cassa Depositi e Prestiti, strumento di tanti interventi pubblici ordinari e straordinari, deve in larga misura tale sua capacità agli oltre € 200 miliardi di risparmi postali.

[14] Ad eccezione della proposta di un Fondo di Garanzia egiziano avanzata da Banca Intesa tramite la Bank of Alexandria, sua controllata. 

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